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RIVISTA MENSILE 1LLVSTRATA DI STVDI RELIGIOSI
Anno V :: Fasc. III. MARZO 1916
Roma - Via Crescenzio, 2
ROMA - 31 MARZO - 1916
DAL SOMMARIO: Aw. G. E. MEILLE: Lo sterminio di un popolo (con illustrazioni) — PAOLO TUCCI: La guerra nelle grandi parole di Gesù — GIOVANNI PIOLI: Un episodio romantico e tragico della * Repubblica romana * — 1LLE EGO : Il «Modernismo» che non muore — INTERMEZZO: Visione di Natale (con disegni di P. A. Paschetto) — XXX: Cronaca biblica — Pro e contro l’intervento del Papa al Congresso della Pace (sunto dei principali scritti apparsi sul soggetto in riviste e giornali italiani).
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GUERRA E RELIGIONE
Studii sulla storia e sugli aspetti religiosi dell’Europa in guerra
È in vendila il primo volume:
romolo murre I. IL SANGUE E L’ALTARE.
Pag. Vili-176. Con copertina illustrata su
disegno di Paolo Paschetto: Lire DUE.
SOMMARIO DEI CAPITOLI:
I, La diana.
La diana non è l'ordine di mobilitazione: è la chiamata, che raggiunse l'Europa sul principio dell'agosto 1914. a trasferirsi spiritualmente dal mondo della pace al mondo della guerra; a divenire. da individui, ciascuno dei quali conduceva la sua piccola guerra per la sua volontà di potenza, nazione che faceva la sua grande guerra, per la sua volontà di potenza
Questa solidarietà, questa dipendenza, questa unità subitamente rivelatesi e con così formidabili esigenze immediate, costituiscono una realtà, un mondo di generazioni o formazioni, spirituali, di necessità morali, di sentimenti, di aspirazioni e di rapporti che pochi conoscevano, ai quali pochi badavano.
Noi indichiamo qui brevemente gli elementi e i dati fondamentali di questo mondo interumano, superindivi-duale, sociale.
II. Gli dèi hanno sete.
Non è già che gli uomini ignorino intieramente l’atmosfera spirituale collettiva in cui essi respirano e vivono; come la società è parte e momento dell'io, così la coscienza di essa fa parte della coscienza di sé. Ma l'esperienza umana va dalle cose più vicine o più note alle meno note e alle più lontane; e, nella lontananza, la consapevolezza diviene sempre più tenue e si esprime sovente in forme fantastiche, mitiche, leggendarie.
In quésto orizzonte vasto e vaporoso dell'io socialeWei rapporti che esso implica e dei conflitti, da esso posti, che esigono una risoluzione, sorgono e si disegnano le divinità; non Dio, ¡'Assoluto essere in se, ma Dio in noi, storicamente, come noi l'abbiamo sentilo immaginato pensalo. il divino, le fantasie animatrici del mondo, i miti delle origini remote e dei fini ultimi, te astrazioni suscitatrici di entusiasmi e di energie: gli dii, in una parola.
Noi presentiamo qui la guerra come guerra nel ciclo, in questo cielo intcriore all'uomo, eminentemente sociale nelle germinazioni storiche e negli effe!li.
111. In faccia al mito.
In questo affrettato ed imposto ritorno ad un mondo di esperienza prima implicitamente accettato e vissuto di riflesso e per tradizione, nel compimento del dovere gravoso ed eroico che l'io sociale impone all'io strettamente individuale, gli uomini son venuti a trovarsi di nuovo in faccia al mito. Cioè, mancando la consapevolezza distinta e quindi anche l'espressione luminosa del mondo di coscienza interumano e collettivo che si è sovrapposto alle coscienze singole, si è ricorso istintivamente alle tradizioni dimenticale, al linguaggio collettivo crealo in altri tempi, da altri istituti. per i loro bisogni, al mito. E la guerra è un infinito ripullulare di religione storica, di istinti primitivi, di sentimenti collettivi, di miti. In questa umanità “ ventesimo secolo,, agitata e commossa dalla guerra, noi possiamo rivedere in ¡scorcio, non solo i venti secoli dalla data dalla quale la civiltà europea ha creduto di prender le mosse, ma i lunghi mulennii di una storia che si perde nell'ombra.
IV. La vendetta dello spirito.
Costretti, come dicevamo, a guardare indietro ed a riprendere pubblicamente Vecchie forme spirituali per intendere e per esprimere in noi questa nuova esperienza delle grandi azioni collettive e della guerra, noi non possiamo tuttavia non avvertire l insufficienza e talora il vuoto di esse; come quelle che sono rimaste in gran parte estranee alla nostra vita ed esperienza umana degli ultimi decennii, orientala in tuli’altro senso. Eravamo un poco tulli Volli Verso le cose esteriori, la natura, la scienza, la tecnica; c, in filosofia, avevamo solo mirato alle lontanissime sintesi supreme, troppo frettolosamente, o alla minutaglia del sapere positivo. Avevamo un poco dimenticalo noi stessi come coscienze e il mondo delle coscienze clic è la Società, simbiosi spirituale. La guerra è quindi, in certo senso, la vendetta dello spirilo; il richiamo improvviso e violento a questo mondo di realtà e di valori collettivi, a questa più profonda e ricca esistenza nostra.
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dalla quale avevamo torlo lo ¡guardo, per la preoccupazione di euerc spregiudicali, e per la moda del sapere scientifico e metodico.
W. La religione della patria.
È tempo, ora. di guardare direttamente a questo mondo di fatti e di rapporti sociali al quale la guerra ci ha violentemente richiamalo; e che è la Nazione. Che cosa è la nazione. di quali elementi risulta, con quale processo si costituisce, che cosa significa per gli individui, quale posto ha nel loro mondo, che cosa chiede e che cosa dà in cambio; ecco le domande alle quali interessa avere una risposta, breve ma certa.
La guerra ci ha rifalli o deve rifarci nazione; ma sono villime di una nuova illusione quelli i quali pensano che questo avvenga quasi automaticamente, e per un processo di comando e di potenza esteriore; formare un popolo a nazione significa avvalorarsi in ciascuno dei suoi membri quegli elementi spirituali e morali dei quali la nazione risulta. Un rinnovamento religioso, interiore, spirituale, adunque. E qui è l'importante. E quelli che pensano essere la nazione risorta per il solo fatto di quattro miliardi sottoscritti o di tre milioni di uomini sotto le armi, avranno, se l'altro risorgimento non avviene, un doloroso. risveglio dalla loro illusione, quando, passata la guerra; l'individuo il gruppo la classe, rimasti que' che erano, si rivolgeranno rabbiosamente contro la nazione, per rifarsi della disciplina lungamente subita
VI. Lo Stato-Chiesa e i suoi eretici.
¿xi Nazione si organizza, agisce, è, nello Stato; dopo essa, questo deve essere dunque esaminalo. Ma lo Stalo, a differenza della Nazione, come cosa più concreta e tangibile, come Volontà positiva che si sovrappone e si contrappone alla volontà individuale, lo Stalo politica
mente coililuilo. organo del diritto, amministratore', esattore', di impóste, integratore e distributore di energie, distributore di giustizia, ha avuto innumerevoli studiosi, alimenta anzi un nugolo di teorici e di professionisti del sapere che lo riguarda. Sarebbe quindi vano entrare in questo campo. E non utile per il nostro scopo; poiché noi cerchiamo invece nello Stalo l'espressione, manchevole sempre e perfettibile, di quegli elementi ideali e mistici, interumani e .collettivi, che abbiamo visto essere la più intima e ricca vita del singolo. Religiosa^ l'origine profonda dello Stalo; giuridica e politica è l'organizzazione, anche esteriore, delle Chiese; chiesa è quindi lo Sialo, alle origini. Stalo sono le chiese nella loro attività pratica. Buono a sapere, per regolarci verso l'uno e verso le altre.
VII. Morte e immortalità.
La nazione e lo Stato, se hanno o sono la grande ed essenziale realtà che abbiamo veduto, non sono tuttavia che nell'individuo; non sono, in ultima istanza, soggetti, ma stati d'animo e processi del solo vero soggettò che è l'individuo.
E da ciò segue che nc Cuna nè l'altro possono esser fine; se fine è non un momento dell'individuo ma tutto l'individuo. in quanto proteso e premuto verso la sua ulteriore realtà, verso il suo dover essere supremo. Verso l'essere, semplicemente.
Non solo, adunque, in una ricerca come la nostra, non si può prescindere da quelli che sono, in definitiva, i fini ultimi dell'individuo'; ma ad essi, come a punto conclusivo e decisivo, bisogna venire. E, se la Nazione e lo Stalo possono aver diritto di reclamare e sacrificare a se l'esistenza fisica, la Vita dell'individuo, e pure essi non -sono il fine, questo fine deve essere* olire la vita-; olire questa esperienza che si assomma e si conclude nel sacrificio. Chi si perde si perde per ritrovarsi. Dove ? Come ? Ecco la questione- della immortalità.
Seguiranno
in maggio: H. CHIESE DI AUTORITÀ Lire DUE
in ottobre: g L’ANARCHIA SPIRITUALE Lire DUE
Abbonamento ai tre volumi Lire 5,50 (Pei1 gli abbonati di Bilycbnis Lire 5).
Dirigere richieste, mediante cartolina-vaglia, all’editore: D. G. Whittinghill, Via del Babuino 107, ROMA - o alla Libreria Editrice “ Bilychnis ”, Via Crescenzio 2, Roma.
(Per copie da spedire direttamente a bibliotechine di lettura di ospedal militari oi a soldati in zona di guerra: Lire 1,50 il volume. Per l’estero: Lire 2,20 il volume: abbonamento ai tre volumi Lire 6).
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REDAZIONE
Prof. Lodovico Paschetto, Redattore Capo fi fi ------ Via Crescenzio, 2 - ROMA —
D. G. Whittinghill, Th. D., Redattore peri'Estero ------ Via del Babuino, 107- ROMA AMMINISTRAZIONE
Via Crescenzio, 2 - ROMA
ABBONAMENTO ANNUO Per l’Italia L. 5. Per l’Estero L. 8. Un fascicolo L. 1.
fi Si pubblica il 15 di ogni mese in fascicoli di almeno 64 pagine, fi
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CRISTIANESIMO E GUERRA
Recentissime pubblicazioni In deposito presso la Libreria Ed. “ Bilychnis „
Via Crescenzio, 2 - ROMA.
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Louvre. Pagine 180 . . . . . . . ...... » 2,50
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di pag. 210 L. 3.25, il 2* di pag. 360 ...... > 3,75
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L. Rolland, F. Duval, A. Tanqueroy, L’Église et la Guerre............................... 9 4—
G. QUADROTTA, Il Papa, l’Italia e la Guerra.>2 —
R. MURRI, La Croce e la Spada.......... > 0,95
A. TaGLIALATELA, / Sermoni della Guerra.......» 3,50
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BIDCMNI5
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l'J RM51À DI S1VDI RELIGIOSI
EDITA DALLA FACOLTA DELIA SCVOLA TEOLOGICA BATTISTA
• DI ROMASOMMARIO:
Avv. Giovanni E. MeillE: Lo sterminio di un popolo (Con introduzione di Corrado Corradini) ............ pag. 181 Illustrazioni: Carta topografica dell’Armenia (p. 185) - Il prof. Thu-maian imprigionato e condannato a morte dai Turchi (p. 189) Orfanelli armeni dei dintorni di Van (Tav. tra le pagine 192 e 193).
Paolo Tucci: La guerra nelle grandi parole di Gesù . . . . . » 197
Giovanni Pioli: Un episodio romantico e tragico della «Repubblica
Romana» ... . ......... . - . . . . . > 220
Ille EGO: Il «modernismo» che non muore ........ » 225
INTERMEZZO {Echi di Natale in questa Pasqua di sangue) :
Fratello Pace (p. G.) : Visione di Natale (Con disegni di Paolo A. Paschetto). » 233
TRA LIBRI E RIVISTE:
XXX: Cronaca Biblica (La guerra e la Bibbia - Ispirazione e critica biblica - Saggi su l’A. Testamento - Ellenismo e N. Testamento -Necrologica) .......................... » 239
S. Bridget: Varia ............................ » 247
Pagine rosa:
Ernesto Rutili: Pro e contra l’intervento del Papa al Congresso della Pace (Sunto dei principali scritti comparsi sul soggetto in riviste e giornali italiani) : On. Tommaso Mosca - « Il Corriere d’Italia » - Filippo Crispolti (I) - On. Romolo Murri - On. Edoardo Sederini -Ernesto Nathan - « Un deputato » - Mons. Umberto Benigni -Filippo Crispolti (II) - « VictOr » ................ » 249
Cambio colle Riviste ........................ » 262
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Estratti dalla Rivista “Bilychnis”
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Giosuè Salatiello : Il misticismo di Caterina da Siena vcon 1 illustraz.). 0,25
Giosuè Salatiello: L’umanesimo di Caterina da Siena (con 1 illustraz.). 0,30
Calogero Vitanza: L’eresia di Dante ....... 0,30
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A. W. Muller: Agostino Favoroni e la teologia di Lutero..............0,30
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T. Neal: Maine de Biran, 0,30 F. Rubbiani: Mazzini e
Gioberti ........ 0,50 Paolo Orano: Dio in Giovanni Prati (con una lettera autografa inedita e ritratto) ....... 0,40
Angelo Crespi : L’evoluzione della religiosità . 0,30
Paolo Orano: La rinascita
dell’anima ....... 0,30 Angelo Crespi : Il problema dell’educazione religiosa ^Introduzione) . . . . . 0,30 Angelo Gambaro : Crisi
contemporanea. . . . . 0,15 Giov. Sacchini: Il Vitalismo . . . . . . . . . . 0,30 R. Murri : La religione nel-l’insegnamento pubblico in Italia........ 0,40
Ed. Tagliatatela: Morale e
Religione ....... 1 —
Mario Puglisi : Il problema morale nelle religioni primitive........ 0,50
A. Tagliatatela : Il sogno di Venerdì Santo e il sógno di Pasqua (con 5 disegni di P. Paschetto) . . 0,20
G. Luzzi: L’opera Spence-riana.......... . . . . 0,15
M. Rosazza: La religione del Nulla (con 6 disegni). 0,30
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James Orr: La Scienza e la Fede cristiana. . . . 0,25
T. Fallot: Sulla soglia. (I nostri morti) con una tavola .......... 0,30
G. E. Meille: Il cristiano nella vita pubblica. . . 0,30
F. Scaduto : Indipendenza dello Stato e libertà delta
Chiesa ......... 0,30
Guglielmo Quadrotta: Religione, Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Salandra. (Con ritratto ed una lettera di A. Salandra)......... 1 —
D. G.: Verso il conclave. 0.15
E. Rutili: Vitalità e vita nel Cattolicismo (Cronache: 1913-1914) 3 fascicoli .......... 0,90
E. Rutili: La soppressione dei Gesuiti nel 1773 nei versi inediti di uno di essi ......... 0,15
Paolo Orano: Gesù e la guerra......... 0,30
Edoardo Giretti : Perchè sono per la guerra. . . 0,20
Romolo Murri : L’individuo e la Storia. (A proposito di cristianesimo e di guerra) ...... 0,40
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LO STERMINIO DI UN POPOLO
« Servire l’Armenia è servire la civiltà » Gladstone.
In nome degli Armeni che risiedono a Torino, in nome di tulli quegli altri che altrove dispersi nelle terre d’esilio, profughi e doloranti, leggeranno queste pagine dove si parla del lungo disperalo martirio del loro popolo, mi sia concesso di ringraziare il sig. Melile per l’aiuto generoso che egli cerca di portare alla loro causa. In questo breve scritto regna pur troppo un senso di sfiducia rassegnata e penosa; bene avverte l'autore che l’appello da molti invocato alla pietà e all'intervento energico delle Nazioni europee suona fino ad ora cosi debole da parer quasi timido; con ragione osserva come gli alleati siano troppo occupati di sè e dei loro interessi per muoversi in favore delle vittime armene; e più amaramente ancora rileva il fatto che oramai si è in Europa cosi avvezzi al racconto dei sistematici massacri, che l’orrore delle prime impressioni si è venuto a mano a mano affievolendo.
Egli pertanto, quasi intenzionalmente, soffoca lo spasimo interno che gli metterebbe sulle labbra il grido dell’indignazione, e darebbe alla sua parola le fiamme dell’ira e della santa vendetta. Non impreca, non piange, non maledice gli autori del-l’immane delitto che impunemente si compie da un popolo sprezzalo™ d’ogni legge umana e divina, in mezzo alla acquiescenza colpevole delle nazioni civili.
V autore ha preferito un’altra via: ha esposto in sintesi chiara e precisa lo stato in cui oggi si trova il popolo infelice di cui i Turchi hanno giurato Vannientamento. Ha citato cifre e fatti. Ha ricordato le promesse solenni sancite dai trattati e sempre o trascurate o tradite. Il breve quadro che egli presenta è così eloquente per se stesso
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e cosi istruttivo, che chi lo legge non può far a meno di domandarsi come mai Dio e gli uomini possano permettere la continuazione di una cosi immane tragedia, possano permettere che in cospetto detta presente vantata civiltà si sussegua tale una serie di iniquità e di delitti, senza che per parte dei suoi difensori sorga una voce a intimare: basta!
E forse è miglior via questa che l'autore ha scelto. Le grida di appello alla pietà, alla vendetta, all'intervento, si perdono nel frastuono degli altri urli disperali di cui il mondo ora echeggia; e ci son molti che crederanno magari, nel caso degli Armeni, a una egoistica esagerazione dettala dalle particolari loro sofferenze. E questo avviene perchè le condizioni reali del povero paese martoriato sono poco note alla maggioranza. ■Fa dùnque opera santa di umanità chi concorre a dissipare questa ignoranza dei più, Chi dimostra che la tragedia del popolo armeno supera in orrore quante altre hanno funestato e funestano la civiltà presente.
Da questa conoscenza non potrà a meno di scaturire un impeto di santa ribellione;. e quanti hanno a cuore il trionf o della libertà, detta giustizia e del diritto consentiranno nel voto e nell'augurio col quale il Metile chiude questo suo scritto eloquente.
Oh possa il suo esempio essere imitato! Sorgano, che è tempo, i difensori del diritto umano e diventino falange irresistibile che sappia imporre ai governanti apatici la via del loro dovere. Non è civiltà dove è offesa alla giustizia. Non possono vantarsi tutrici della libertà e del diritto le Nazioni che incuranti delle promesse giurate permettono l'agonia e la '»norie di un popolo eroico. Giacché non vi è una particolare quistione armena. Non vi è che una quistione sola : quella della civiltà, a difesa della quale si sono unite in un’opera comune le nazioni che al valore transitorio della forza brutale oppongono il valore eterno del diritto. Cormdo Corradino.
on questo titolo, ed altri simili, alcuni periodici (1) hanno pubblicato in questi ultimi mesi notizie più o meno diffuse intorno alla distruzione sistematica degli Armeni di Turchia. L’appello alla pietà e all’intervento energico delle Nazioni europee — appello del resto così debole da parer quasi timido — non ha prodotto alcun effetto. Da tanto tempo si parla dei massacri armeni che quei macelli sembrano quasi costituire uno stato normale, a cui ci s’è ormai rassegnati. D’altronde gli Alleati
hanno già abbastanza da fare per poter intervenire in favore di queste vittime del furore ottomano. Altri popoli europei in vero non avrebbero da dire che una sola parola perchè quel crudele stato di cose cessasse immediatamente. Però questa parola non la diranno; come potrebbero dirla dopo che un conte Reventlow ha scritto nella Deutsche Tage Zeitung le ciniche parole seguenti: « Per l’impero tedesco non può essere oggetto di discussione l’immischiarsi nelle faccende interne di un
(1) Notiamo con piacere la fondazione recente di un giornale italiano per la difesa degli Armeni. È il periodico mensile Armenia, « eco delle rivendicazioni armene ». Si pubblica a Torino (Corso Regina Margherita 73). Abbonam. annuo L. 2,50. Un numero cent. 25. Dirett. Onorario prof. Corrado Corradino.
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LO STERMINIO DI UN PÒPOLO
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su© alleato. Se gli organi competenti turchi hanno ritenuto giunto il momento di intervenire con energia contro l’infedele e tumultuoso elemento armeno, essi sono non soltanto nel loro diritto, ma nel loro dovere. In piena guerra sarebbe una pazzia il voler trattare tale argomento con i guanti gialli. In ogni caso la Turchia può esser certa che la pubblica opinione in Germania considera questa faccenda come un affare esclusivamente di pertinenza del Governo turco».
Non si potrebbe davvero essere più chiari di così: Mani libere dunque agli assassini!
Il popolo armeno abita nella regione del Caucaso, e nella parte nord-ovest dell’Asia Minore, verso il Mar Nero. Ecco una statistica generale degli Armeni, posteriore al 1900 e che crediamo sia la più attendìbile:
Nell’Armenia turca ed in Asia Minore ........ 2,000,000 A Costantinopoli e nella Turchia d’Europa ...... 250,000
Nel Caucaso .................... 1.500.000
Nel resto della Russia ................ 150.000
In Persia ........ ............. 250.000
Altrove . . . ................... 250.000
Totale
4.400.000
Il numero degli Armeni uguaglia dunque e supera quello di molti piccoli popoli balcanici i quali ottennero l'indipendenza, o per lo meno l’autonomia di governo.
La causa prima e principale delle persecuzioni dei Turchi contro gli Armeni è costituita dalla politica seguita verso la Sublime Porta dalle Potenze europèe. A queste Potenze la Turchia deve la sua esistenza, quindi è l'Europa che è responsabile delle sofferenze patite dagli Armeni. Ciò risulta chiaramente da quanto segue.
UN PO’ DI STORIA MODERNA
L’Armenia, che potrebbe sotto un certo punto di vista essere considerata come una Polonia asiatica, ha la sua popolazione sotto la Russia, sotto la Turchia e sotto la Persia. L’ultima spartizione del suo territorio fu consacrata nel 1826 col trattato di Turkmanchai fra la Persia e la Russia. Dopo fu la Russia che cercò sempre di estendere il suo dominio nell’Armenia turca. Nel 1853 come nel 1878 la invade e si avanza arditamente con l’idea ben chiara d’aprirsi attraverso le aspre montagne uno sbocco nel Mediterraneo.
Dopo la guerra russo-turca, i Russi imposero, mediante l’art. 16 del trattato di S. Stejano (3 marzo 1878) l’introduzione delle riforme promesse, come condizione all’evacuazione delle provincie armene allora occupate dall’esercito russo.
Siccome l’evacuazione da parte delle truppe russe dei territori da esse occupati in Armenia, e ch’esse devono restituire alla Turchia, può dar luogo a conflitti ed a complicazioni a danno della conservazione dei buoni rapporti
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tra i due paesi, la Sublime Porta sf impegna ad eseguire, senz’altri ritardi, i miglioramenti e le riforme rese necessarie dalle circostanze locali delle provincie abitate dagli Armeni ed a garantire la loro sicurezza contro i Curdi e i Circassi.
L’Inghilterra, temendo che questo impegno della Turchia di fronte alla sola Russia le desse troppa influenza in Turchia e specialmente nella valle dell’Arosse e deli’Eufrate, pretese che la Turchia prendesse un identico impegno verso di essa, per mantenere l'equilibrio europeo. Fu questa l’origine della Convenzione angloturca di Cipro, firmata il 4 giugno 1878 e la cui più importante disposizione è la seguente:
Se Batum, Ardahan, Carso o una qualsiasi di queste regioni sarà conservata dalla* Russia, e se sarà fatto dalla Russia qualsiasi tentativo in qualsiasi futuro momento d’impadronirsi di qualsiasi altro territorio di Sua Maestà Imperiale il Sultano, in Asia, quali sono delimitati dal trattato di pace, l’Inghilterra s’impegna ad unirsi al Sultano nel difendere questi territori colla forza delle armi.
Alla sua volta, S. M. I. il Sultano promette all’Inghilterra d’introdurre le riforme necessarie, che saranno decise più tardi tra le due potenze nel governo e per la protezione dei cristiani e altri sudditi della Porta in quei territori. Per facilitare all’Inghilterra di prendere le misure necessarie per l’esecuzione dei suoi impegni, S. M. I. il Sultano acconsente inoltre a designare l’isola di Cipro per essere occupata e amministrata dall’Inghilterra.
Visti questi impegni isolati del Sultano, l'Europa pretese ch’egli facesse le medesime promesse alle sei grandi Potenze. Queste si riunirono dunque in congresso a Berlino, e firmarono il famoso trattato di Berlino del io luglio 1878, il cui articolo 61, relativo all’Armenia, è concepito in questi termini:
La Sublime Porta s’impegna a introdurre, senz’altri ritardi, le migliorie e le riforme richieste dalle circostanze locali« nelle provincie abitate dagli Armeni ed a garantire la loro sicurezza contro i Circassi ed i Curdi. Essa farà note periodicamente le misure prese a questo riguardo alle potenze che sorveglieranno la loro applicazione.
La sorveglianza delle Potenze, promessa da questo articolo, pone in certo qual modo gli Armeni sotto la protezione dell’Europa. La questione armena avendo così preso un carattere internazionale, l’Europa acquistò un diritto e un dovere d'intervenire in favore degli Armeni, e gli Armeni il diritto di fare appello alle grandi Potenze. Gli Armeni iniziarono dunque tra le nazióni europee un’intensa propaganda per le riforme, che formularono nello schema seguente.
LE RIFORME INVOCATE
1. Nomina, da parte del Sultane e coll’approvazione delle Potenze di un Alto Commissario per le sei provincie Armene, cioè Van, Bitlis, Diarbekir, Erzerum, Sivas e Carput.
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2. Istituzione d’una Commissione permanente di sorveglianza e di controllo, comprendente i rappresentanti delle Potenze residenti in quelle provincie.
3. Un’assemblea generale elettiva per ogni provincia, assemblea composta metà di Armeni e metà di Moslem. Questo principio di nominare metà Armeni e metà Moslem da essere applicato in generale per tutti i funzionari.
4. Creazione d’una polizia locale, reclutata di nuovo per una metà tra gli Armeni e per una metà tra i Moslem, e comandata da ufficiali europei.
5. Riforme giuridiche e finanziarie locali sotto la direzione di personale europeo.
Queste le riforme propugnate dagli stessi Armeni. Ma i Turchi stavano in guardia, ed appunto da allora data il loro accanimento nel perseguitare gli Armeni. Poiché, vedendo che la questione armena ha preso un’importanza internazionale, i Turchi, invece di mantenere i loro impegni, hanno cercato di risolvere la questione annientando o riducendo all'impotenza gli Armeni.
— L’Europa, essi dicono, ha acquistato il diritto d’intervenire negli affari della Turchia; una volta gli Armeni distrutti, essa non possederà più alcun pretesto d’intervento. Si comprende perciò come mai il piano per lo sterminio degli Armèni sia stato organizzato e progressivamente attuato dopo il trattato di Berlino.
IL NESSUN VALORE DELLA “PROTEZIONE” EUROPEA
Del resto i Turchi hanno fatto presto ad accorgersi che, in ultima analisi, il trattato di Berlino favoriva questo loro piano. Di fatti, prima di questo trattato la Russia, sola padrona del campo, faceva potentemente sentire la sua voce...e il suo pugno. L’intesa invece tra le sei grandi Potenze europee — tutte ugualmente protettrici — è molto più difficile. La Turchia ha saputo approfittarne.
il Sultano — quel mostro di Abdul Hamid — « debuttò » cercando, mediante misure oppressive, di porre un termine allo sviluppo degli Armeni. Sempre più incoraggiato in questa via dall’indifferenza dell’Europa che faceva l’orecchio da mercante (il termine è terribilmente esatto) alle disperate grida degli Armeni, egli organizzò nel 1890, nelle provincie armene, la cavalleria Hamidié, composta unicamente di Curdi.
1 Curdi sono una tribù nomade, crudele, mezzo selvaggia. Fino allora il Curdo era il brigante di professione, contro il quale l’Armeno poteva difendersi, o per lo meno lamentarsi davanti all’autorità, ma dal momento in cui il Curdo incominciò a portare l’uniforme del Sultano coll’immunità d’un soldato, il brigante diventò lui stesso « autorità costituita ». Difendersi contro di lui significò per conseguenza resistere all’autorità costituita, cioè prendere un atteggiamento da rivoltosi!
Ora, siccome questa cavalleria non è pagata dal Sultano, i Curdi hanno il permesso, o si fanno lecito di saccheggiare impunemente gli Armeni. È un esercito di briganti, senza disciplina, la cui missione è di devastare le case, bruciare le messi, portar via il bestiame, violare le donne e le figlie degli Armeni, uccidere chi tenta resistere, insomma di cacciare l’Armeno.dal suo paese e di sostituirlo con Curdi
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o altri musulmani. Per raggiungere questo scopo, una corrente continua di Circassi, di Lazi, di Gurgis, fu diretta verso l'Armenia, perchè la Sublime Porta potesse dichiarare all'Europa che gli Armeni non formano la maggioranza della popolazione in alcuna parte della Turchia e quindi non meritano che l’Europa s'occupi di loro o imponga riforme in loro favore.
Ma contro queste tendenziose manovre parlano alto e chiaro le cifre. Si osservi, per convincersene, la seguente Statistica delle sei Provincie armene della Turchia compilala pochi anni or sono dal Patriarcato Armeno di Costantinopoli.
Popolazione Percentuale
Turchi : . 666,000 25-4
Curdi. . . . . . . . . 424,000 16.3
Altre razze mussulmane . . 88,000 34
Armeni ....... . 1,018,000 38.9
Altre razze cristiane 165,000 J Nestoriani, ecc. Greci, ecc. . . 123,000 42,000 4.8 1.6
Kizilbachi . . 140,000 5-3
Altre religioni 254,000 . . j Zazas . . . . 77,000 2.9
» Yazidis . . . 37»ooo 14
2,615,000 100
S’INCOMINCIA A MASSACRARE
Incoraggiato dall'atteggiamento passivo delle grandi Potenze, il Sultano fece un tentativo di massacro in un piccolo distretto armeno, a Sassun, nell’estate del 1894. Le notizie dei massacri di Sassun scossero — ma non turbarono — per pochi giorni l’opinione pubblica in Europa. L’Inghilterra, la Francia e la Russia chiesero un’inchiesta e presentarono al Sultano un progetto di riforme per gli Armeni. Il Sultano, per un momento spaventato, non tardò ad osservare la disunione di quel trio, la poca serietà dei suoi reclami, e specialmente là sua risoluzione di non intervenire in modo efficace in favore degli Armeni. I fatti dimostrarono in seguito che il Sultano non s’era affatto sbagliato.
Credendo che fosse giunto il momento propizio per dare il colpo di morte agli Armeni, egli diede l’ordine d’un massacro generale di quel popolo in tutto l’impero turco, e l’Europa cristiana (!) e civilizzata (!!) ha da vent’anni assistito impassibile a questo massacro e vi assiste tutt’ora. L’eccidio ju organizzato ed eseguito dagli ufficiali e dai soldati turchi. Circa duecentomila soldati della riserva furono richiamati sotto le armi, col pretesto di difendere i cristiani, ma in realtà per annientarli. La colpevolezza dell’Europa giunse al punto dà tollerare un’ecatombe di 8 a 10.000 armeni nella stessa capitale Costantinopoli. Sui massacri gli ambascia-tori delle sei grandi Potenze redassero in data 30 gennaio 1896 un « Rapporto Ufficiale»...e tutto fu detto.
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BILYCHNIS
Coi dati contenuti in questo rapporto, e con quelli raccolti personalmente sui posti, il dott. Lepsius ha redatto numerosi quadri statistici che si riferiscono ad ogni provincia e ad ogni località e che si possono riassumere nella tabella seguente:
I massacri degli anni 1894-1896.
PROVINCIE Uccisi Saccheggiati. Distrutti Conversioni forzate Affamati
Armeni c altri cristiani Ecclesiastici 1 9 8 a 1 4t C : Caso. Botteghe i 1 : i > ì 5 > Persone < oaqosotu ut aietawea osata'*»
i. Erzerum . . . . 2. Bitlis ...... 3. Carpurt . . . . 4. Diarbekir. . . . 5. Van ....... 6. Sivas ...... 7. Trebisonda. . . 8. Angora . . . . . 9. Adana...... io. Aleppo . . ; . . ii. Ismidt...... 12. Costantinopoli. Totali . . . 4-390 1.600 *4-345 6.000 21.323 7.420 2.130 2-794 352 23652 65 4.X72 36 12 46 38 *3 27 *9 «9 39 572 500 IO 20 50 ?3 60 267 *95 300 200 825 350 34 45 25 250 2 • • 1.800 I.22I 8.O54 4.I49 3-895 2.7OO 2.000 2-35» 4.726 55 73 63 120 284 4* 6 3 61 169 ,o5 *3’ 176 4 I5.OOO • • 3-990 200 • • • • • ■ ■. SO O O CO ■ " ' ’ ’ M 4O.OOO 20.000 100.000 30.000 97.000 180.000 4.OOO 8.000 17.000 50.000
88.243 *9* *•303 2.473 30.896 645 646 19.190 328 546.000
N. B. Le caselle lasciate in bianco non corrispondono alla cifra zero; ma semplicemente non sono state riempite per mancanza di dati precisi. Le cifre totali devono dunque essere considerevolmente aumentate.
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Il prof. Thumaian
imprigionato e condannato a morte dai Turchi liberato per l'intervento europeo nei 1893.
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BILYCHNIS
I MOTIVI DEI NUOVI MASSACRI
Nel presente spaventoso conflitto dei popoli, in cui si direbbe che la sete di morte, il bisogno di distruzione, la passione dell’annientamento siano diventati una regola, si è verificata in Armenia, a partire dal 20 maggio dello scorso anno 1915, una recrudescenza di massacri, d’assassini, di torture.
Per quali ragioni?
Queste ragioni, facili a trovarsi, sono l’atteggiamento politico preso dagli Armeni ed il carattere proprio del Turco.
Non appena scoppiò la guerra, nell’agosto 1914, gli Armeni, ascoltando la loro coscienza soltanto, presero risolutamente partito per gli Alleati. Dei volontàri s’arruolarono sotto le bandiere francesi, mentre altri — dicesi in numero di 200.000 ma la cifra ci pare esagerata — raggiungevano gli eserciti russi. Ce n’era più che abbastanza per attirarsi l’odio del Turco il quale fece scontare agli Armeni la nobiltà del loro gesto raddoppiando a loro riguardo di crudeltà e raffinando più che mai i già orrendi supplizi.
Qual'è infatti l’essenza della mentalità turca?
Nonostante il loro soggiorno secolare nelle città, i Turchi hanno conservato le abitudini delle popolazioni nomadi. Nessun centro importante è stato costruito da essi. Fanno lavorare gli altri, lasciano loro anzi al principio una certa latitudine; poi, allorquando la prosperità comincia a incoronare lo sforzo del lavoratore, allorquando il Turco stima che il giaurro rischia di diventare per lui un pericolo, egli fomenta una rivolta e massacra i rivoltosi (1).
Attivissimi e d’ingegno svegliato, gli Armeni hanno finito per avere nelle città il monopolio delle carriere liberali: sono medici, avvocati, professori. Economi e abituati ai sacrifici, molti di essi hanno ammassato patrimoni considerevoli e dominano nel commercio e nelle banche. Nelle campagne sonò fra i migliori e più attivi agricoltori: il loro campo desta invidia al turco indolente che non sa trarre dalla sua terra, egualmente fertile, un raccolto che eguagli quello dell’armeno; così come la loro ricchezza offende nella città il mussulmano che aspetta la fortuna dal cielo e crede che, pel solo fatto di essere mussulmano, le lire...turche gli debbano piovere da chissà dove.
S’è detto e ripetuto che i Turchi, essendo fatalisti e non possedendo alcuna educazione, non possono assolutamente europeizzarsi. Il loro cervello è pigro, la loro mentalità è quella dei loro avi e — in sei secoli da che essi infestano l’Europa e l’Asia Minore —- non hanno fatto alcuno sforzo per camminare risolutamente sulla via della civiltà e del progresso. Saccheggiano, uccidono, massacrano, violano come hanno fatto i loro padri; si trovano bene di quello stato di cose, vi si mantengono.
(1) Vedi a questo proposito interessanti considerazioni in un notevole articolo di F. Macler, professore d’armeno nella Scuola parigina delle Lingue Orientali viventi. Questo articolo è pubblicato nella rivista Poi et Vie, quad. B. del 16 dicembre 1915.
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QUELLO CHE È SUCCESSO A TREBISONDA
Per quanto poco informati possiamo essere sugli avvenimenti svoltisi, di recente in Anatolia, sappiamo, per citare un esempio tipico tra mille, che a Trebisonda, la cui popolazione si componeva in cifre tonde di 15.000 Armeni, 20.000 Greci e 35.000 Turchi, non rimane più un solo Armeno vivente. Sono stati tutti trucidati. E sappiamo pure come si svolsero le cose.
Le autorità turche raccolsero in primo luogo tutti gli Armeni, sudditi russi. Col pretesto di espellerli, furon fatti salire dentro a imbarcazioni che presero il largo; alcune ore dopo le medesime imbarcazioni rientravano in porto, alleggerite dei loro passeggeri armeni.
Le medesime autorità turche ordinarono a tutti gli Armeni abitanti dei villaggi circonvicini di recarsi a Trebisonda, pena la morte. Quando furono raccolti in città' si separarono i giovani dalle donne e dai vecchi; sotto pretesto di espulsione ne fu imbarcata una parte e annegata in mare, mentre gli altri furono avviati verso l’interno del paese e massacrati lungo le strade. Poi si separarono dalle donne i bambini dai tre ai tredici anni i quali furono « concentrati » nel Collegio dei monaci francesi precedentemente espulsi. Tra loro furono scelti i più graziosi ragazzetti e le più belle bambine. Il resto fu condotto fuori di città e misteriosamente scomparve.
Poi venne la volta delle donne; quelle che non furono scelte per arricchire gli harem turchi furono condotte fuori di città e spietatamente massacrate o annegate dopo aver subito i più atroci supplizi. L’indomani di codesta « espulsione » il console d’America, percorrendo a cavallo i dintorni della città, vide co’ suoi occhi il fiume che trasportava, in quantità innumerevoli, cadaveri allacciati di donne e di piccoli bambini.
Tra le ragazzine ammucchiate nel collegio francese, una di esse ebbe la fortuna di rifugiarsi nel solaio. Col favor della notte, fuggì e si rifugiò presso il consolato d’Italia. Il console accolse la signorina Karagusian, la condusse con sè a Costantinopoli, poi al Pireo, la vestì come se fosse la sua domestica, le procurò un passaporto italiano e l’avviò verno Odessa dove la disgraziata giovane ritrovò sua sorella, la signora Boyadjian. È da questa unica scampata che sono state conosciute le atrocità del massacro di Trebisonda avvenuto in giugno-luglio 1915.
Sterminando gli Armeni, i Turchi facevano « un buon affare ». Per la sola città di Trebisonda, le perdite armene nette possono essere valutate a cento milioni di lire, in beni mobili e immobili. Nel 1896 ci si accontentava spesse volte di rovinare gli Armeni e d’impadronirsi dei loro beni dopo dichiarato il fallimento; tipico fu il case del sig. Aznavorian, il cui commercio di tessuti fu distrutto, poi rivenduto per un’inezia al turco Nemlizadé. Nel 1915 gli Armeni sono sterminati senz’altro perchè si possa carpire le loro ricchezze. Uno dei più ricchi Armeni di Trebisonda, il sig. Ara-bian, vedendosi minacciato espulsione, andò a trovare il governatore della città e gli propose di consegnargli tutti i suoi beni, pur di aver salva la vita. Il governatore gli rispose, ridendogli in faccia: « Ma tutto questo già ci appartiene ». E lo condannò alla deportazione. Si sa che cosa significa, in turco attuale, una condanna all'esilio.
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L’INTERVISTA DEL COMM. GORRINI
Il Messaggero, pubblica in data del 27-28 agosto un'intervista coi console generale italiano di Trebisonda comm. Giacomo Gorrini.
Attraverso la commossa parola, testimonianza oculare, del nobile personaggio — vanto dell’Italia diplomatica — ognuno potrà avere la tremenda visione del martirio armeno:
« Sia cortese di chiarire un ultimo punto: che c’è di vero in quanto si è pubblicato sulle persecuzioni contro gli armeni nell'impero ottomano?
Gli armeni furono trattati diversamente nei differenti vilayet: sospettati e sorvegliati dovunque, essi subirono una vera strage, peggiore del massacro, nei vilayet cosi detti armeni, cinque dei quali (sono sette in tutto), e ira essi i più importanti e numerosi, disgraziatamente facevano parte appunto della mia giurisdizione consolare, cioè: Trebisonda, Erzerum, Van, Bitlis e Sivas. Nel mio distretto a partire dal 24 giugno, gli armeni furono tutti internati, cioè scacciati a forza dalle rispettive residenze e accompagnati dai gendarmi per destinazioni lontane, ma ignote, che per pochi sarà l’interno della Mesopotamia, ma per i quattro quinti era... la morte con inaudite crudeltà.
Il proclama solenne d’internamento venne da Costantinopoli: è opera del Governo centrale e del Comitato Unione e Progresso.
Le autorità locali e perfino le popolazioni mussulmane cercarono di resistere, attenuare, sottrarre, nascondere: ma tutto fu vano. Gli ordini del Governo centrale furono categoricamente confermati, e tutti dovettero piegarsi e obbedire.
Il nostro intervento consolare cercò di salvare almeno le donne e i bambini; ottenemmo bensì numerose esenzioni, ma non furono poi rispettate per l’intromissione del locale Comitato Unione e Progresso e per ordini venuti da Costantinopoli.
Fu una vera strage e carneficina di innocenti, una cosa inaudita, una pagina nera, con la violazione flagrante dei più sacrosanti diritti di umanità, di cristianità e di nazionalità.
Gli armeni cattolici poi, che in passato erano stati rispettati sempre, eccettuati dai massacri e dalle persecuzioni, questa volta, e sempre per ordini del Centro, furono trattati peggio di tutti.
Di 14 mila circa armeni fra gregoriani, cattolici e protestanti che abitavano Trebisonda,. e. che mai provocarono disordini nè dettero mai luogo a provvedimenti collettivi di polizia, quand’io partii non ne rimanevano più neppure cento!
Dal 24 giugno, giorno della pubblicazione dell’infame decreto, fino al 23 luglio, giorno della mia partenza da Trebisonda io non avevo dormito, io non avevo mangiato più, ero in preda ai nervi, alla nausea, tant’era stato lo strazio di dover assistere ad una esecuzione in massa di creature inermi, innocenti. Il passaggio delle squadre degli armeni sotto le finestre e davanti la porta del Consolato, le Toro invocazioni al soccorso senza che nè io nè altri potessimo fare nulla per loro, la città essendo in stato d’assedio, guardata in ogni punto da 15 mila soldati in pieno assetto di guerra, da migliaia di agenti di polizia, dalle bande dei volontari e dagli addétti del Comitato Unione e Progresso; i pianti, le lacrime, le desolazioni, le imprecazioni, i numerosi suicidi, le morti subitanee per lo spavento, gl’impazzimenti improvvisi, gli incendi, le fucilate in città, la caccia spietata nelle case e nelle campagne; i cadaveri a centinaia trovati ogni giorno sulla strada dell’internamento, le giovani donne ridotte a forza mussulmane o internate come tutti gli altri, i bambini strappati alle loro famiglie o alle scuole cristiane e affidati per forza alle famiglie mussulmane, ovvero posti a centinaia sulle barche con la sola camicia, poi capovolti e affogati nel Mar Nero o nel fiume Dére Méndere, sono gli ultimi incancellabili ricordi di Trebisonda, ricordi, che, ancora, a un mese di distanza, mi straziano l'anima, mi fanno fremere. Quando si è dovuto assistere per un intiero mese a siffatti orrori, a torture così prolungate, nell’assoluta impotenza di agire come avrei voluto, viene spontanea, naturale la domanda se tutti i cannibali e se tutte le
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Orfanelli armeni dei dintorni di Van.
(1916 - 111)
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belve feroci abbiano lasciato i loro recessi e nascondigli o le foreste vergini dell’Afnca, Asia, America ed Oceania per darsi convegno a Stambul! Permetta anzi che io chiuda a questo punto il mio colloquio, e che dichiari che questa pagina nera della Turchia merita la più risoluta riprovazione e la vendetta della intiera cristianità. Se sapessero tutte le cose che so io, tutto quello che ho dovuto vedere co’ miei occhi e udire co’ miei orecchi, tutte le Potenze cristiane ancora neutrali dovrebbero sollevarsi contro la Turchia, gridare anatema al suo incivile Governo e al feroce suo Comitato Unione e Progresso e ritenere responsabili anche gli alleati che tollerano o coprono col loro aiuto delitti esecrandi che non hanno l’eguale nella storia antica nè moderna.
Onta, orrore, obbrobrio! » (r).
PARTICOLARI ORRENDI
Ciò che successe a Trebisonda avvenne in tutti i grandi centri ottomani dove trovansi, (meglio sarebbe dire trovavansi) forti colonie armene. È impossibile, in uno studio come questo, raccogliere tutti i particolari. Accontentiamoci dei più salienti.
Ecco che cosa disse al corrispondente del Secolo in Bari il poeta armeno Hrand Nazariantz:
« Durante lo scorso inverno, in Armenia, gli uomini e le donne furono costretti a compiere il trasporto delle munizioni per le truppe turche operanti nel Caucaso. Erano miglia e miglia da attraversare con un grosso carico sulle spalle per regioni impervie e prive di strade. Appena il 20-25 per cento di queste vittime ha sopravvissuto al durissimo viaggio. Gli altri morirono di sfinimento.
« I deputati armeni alla Camera ottomana fecero dei passi presso il Governo di Stambul, perchè tali corvées fossero, almeno, ridotte ad un massimo di cinque giorni. I loro sforzi furono vani.
«Tutto è stato requisito agli Armeni senza lasciare loro nessuna ricevuta. Durante le cosidette operazioni di disarmo, nella sola regione di Sivas, più di 200.000 persone sonò state massacrate. Si infuria specialmente contro gli Armeni intellettuali, medici, avvocati, professori, non senza inferocire contro la gioventù universitaria. Il deputato Vramian è stato assassinato mentre lo si traduceva in esilio a Siarbekir; i deputati Var-kès e Zherab languono nelle prigioni di Aiache. Oscan, ministro delle Poste e Telegrafi, e Haladjiam dei Lavori Pubblici, cuciti in sacelli sono stati gettati nel Bosforo.
« Il 12 aprile scorso furono imprigionati 3000 notabili armeni. Di essi 100 sono detenuti nei sotterranei di Aiache; 200 di Costantinopoli, sono internati a Kastamuni; 180 di Adrianopoli, e 40 di Smirne, sono nelle orribili carceri di Erzerum. In epoca più recente a Syss sono stati arrestati 80 Armeni, quasi tutti mandati in esilio. A Divres 50 persone subirono la stessa sorte sotto l’accusa di aver partecipato a un complotto rivoluzionario, ed agonizzano nelle prigioni di Sivas. Ad Aiutab, dopo brutali requisizioni, 28 persone sono state imprigionate, 9 giovanetti arrestati a Hogissar, 6 ragazzi di Gurina e 27 prigionieri sono stati fucilati sulla via di Sivas dai gendarmi che li accompagnavano in luogo d’internamento; 7 altri, arrestati a Togordo, hanno subito la stessa sorte. S’ignora quello che sia avvenuto dei numerosi depositi a Yodgad. Innumerevoli le condanne a morte emesse dai tribunali regolari. A Van 2 impiccati, ad Orona 2 impiccati, l’uno dei quali settuagenario. A Costantinopoli 20 impiccati fra i più distinti personaggi armeni. — Istigati dallo stesso governatore turco, due massacri consecutivi hanno avuto luogo nelle città di Savache e di Gorgoz.
(1) Da V Armenia, n. r, pag. 5.
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« L’emigrazione forzata degli Armeni è il nuovo espediente al quale sono ricorsi i Turchi. Dei gruppi di 200, 400, 500 e talvolta fino a 600 persone sono inviati quotidianamente al sud del deserto della Mesopotamia; 700 famiglie sono passate per Ainataib, 1300 da Doyort sono state internate ad Aleppo.
• I beni degli emigranti sono incamerati dalle bande turche che spargono terrore e morte nelle sciagurate terrò armene. Il saccheggio in molte località avviene ordinata-mente e sotto il controllo delle stesse autorità ottomane... • (Il Secolo di Milano del 19 gennaio 1916).
Ecco altri episodi di cui hanno parlato i giornali:
• La vita è intollerabile a Costantinopoli. La polizia vende in pieno mercato, ma soltanto ai Turchi, orfani armeni dei due sessi per il prezzo da otto a dodici franchi. Le giovinette nubili si vendono un po’ più care... ». (Corrispondenza da Lugano alla Stampa-di Torino, 21 settembre 1915).
« Ovunque si massacra e sembra che pochi della regione oltre Orfa siano quelli scam-Eiati. Le donne ed i bambini sono stati agglomerati, anzi ammassati, dentro Orfa e sofreno terribilmente per la mancanza di tutto, non avendo dal Governo Ottomano che un sussidio di 5 centesimi al giorno. Di questi disgraziati ne muoiono una cinquantina al giorno.
• Un nuovo sistema è poi stato adottato dalle Autorità turche per sbarazzarsi dei notabili armeni. Essi arrestano la persona voluta, e, facendola accompagnare dai soldati, la trasferiscono a piedi da una città ad un’altra città. Durante il tragitto un soldato uccide l’arrestato e poi denuncia ai superiori l’uccisione avvenuta in seguito ad un attacco di briganti » (Corrispondenza di G. G. Cassuto dal Cairo alla Stampa di Torino, 2 ottobre 1915).
«Le notizie che giungono quassù da Costantinopoli sono orrende. I Turchi s’ub-briacano di sangue, celebrano un fanatico ramadan vermiglio. Non mai tanta allegra strage di giaurri avvenne dalla caduta di Bisanzio ad oggi.
«Le stragi ordinate da Abdul Hamid, dal 1895 >898, sono facezie al paragone
dei massacri nei quali si compiacciono al presente i Giovani Turchi, gli stessi che gridavano ieri: « Turchi, Armeni, Greci, Israeliti, abbracciamoci: noi siamo tutti quanti Ottomani, eguali dinanzi alla Legge... ». L’Armenia, già fiorente non è che un carnaio immenso, coronato da foschissime fiamme, tra le quali migliaia d’innocenti periscono della morte più atroce.
« Gli uomini uccisi, le case incendiate, le donne che godono il privilegio della bellezza trascinate lontano dalle loro terre, divise tra gli harem dei pascià e dei bey. È lo sterminio di una razza.
« Alla vigilia della fine, i Giovani Turchi sono invasi da una furibonda frenesia di sangue. Talaat bey, anima e duce dei Turchi, in una conversazione con un giornalista tedesco, trova naturale la festa. « I Turchi, egli dice, sono più energici dei Tedeschi nel Belgio: essi salvano la patria dell’IsIam ».
« Saprete della morte del deputato armeno Cricor Zohrah. Giurista valoroso, sino alla vigilia della guerra aveva goduto gran fama nell’impero Ottomano. I Turchi lo hanno appeso ad una forca, reo d’essere Armeno. Lo hanno appiccato in piena Costantinopoli, tra la gioia selvaggia della folla » (Corrispondenza di A. Maniero da Bucarest alla Stampa di Torino, 3 ottobre 1915).
« Da un Console straniero giunto a Roma si apprendono particolari orribili sulle stragi degli Armeni.
«Si calcola che nelle campagne e nelle grandi città nessun Armeno sia riuscito a sfuggire a questo sterminio eseguito con metodo e con la più grande efferatezza. Il giorno in cui cominciarono le stragi si videro comparire nelle strade gruppi di cento o duecento persone reclutate tra la feccia della popolazione mussulmana, seguiti da drappelli di fanteria turca con tamburi e bandiere. Appena un Armeno era avvistato, la turba omi-cidia si scagliava contro di lui e lo accoppava a bastonate sul capo. Molto spesso, in alcune' strade, intere famiglie venivano cosi distrutte. I disgraziati, forse ancora vivi, venivano subito caricati su carrette che seguivano i massacratori e portati di gran carriera in campagna, dove venivano interrati in vaste fosse precedentemente scavate e subito dopo colmate colla calce viva.
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« Quando le stragi si svolgono nello case è peggio. Gli uomini, i fanciulli, i vecchi sono massacrati immediatamente: quindi si saccheggiano le case e si violano le donne che sono in seguito vendute all'incanto per poche piastre, secondo la loro giovinezza e beltà. Dopo ognuna di queste feroci battute le strade restano chiazzate di sangue che non viene nemmeno lavato. Nè le chiese armene sono state risparmiate. Parecchi sacerdoti sono stati trucidati sugli altari, mentre la chiesa veniva devastata e saccheggiata. Questa volta poi i Turchi, sicuri della impunità essendo assenti i ministri delle Potenze a Costantinopoli, non hanno avuto alcun freno nella lóro ferocia.
« Ciò che maggiormente indigna è che questi eccidi vengono commessi sotto gli occhi degli ufficiali tedeschi che non muovono un dito per farli cessare» (Corrispondenza da Roma al Secolo di Milano, 8 ottobre 1915).
«La Neue Zürcher Zeitung pubblica un’altra interessantissima lettera da Urmia (Persia), nella quale sono sommariamente descritte le atrocità turche contro gli Armeni. La lettera dice che, dopo lo scoppio delle ostilità tra la Turchia e la Russia e dopo la partenza del Console di Russia, i Curdi nominarono un Governatore il quale costrinse gli Armeni a consegnare armi c denari. Ben sapendo gli Armeni che questo non era se non un pretesto per massacrarli, parte si rifugiarono negli edifici della Missione americana, altri tentarono di difendersi. 1 Turchi assalirono i locali della Missione, ma gli Americani riuscirono a scongiurare l’eccidio innalzando la bandiera americana e pagando ai Curdi forti somme di denaro. Circa quindici mila Armeni e Siriani sono ora ricoverati negli uffici della Missione. Duemila cristiani sono ricoverati nella chiesa presbiteriana, in uno spazio ristrettissimo, in condizioni igieniche deplorevoli. Malattie sono scoppiate e fanno numerose vittime.
« Nel villaggio di Ada l’evangelista americano venne assassinato. Donne e bambini furono costretti a farsi maomettani. I Curdi assediarono con 5000 soldati il villaggio di Cokierpe dove gli Armeni si erano rifugiati. Duecento giovani Armeni cercarono di resistere, ma furono massacrati nel modo più atroce. A gruppi di quattro o cinque vennero condotti al cimitero e assassinati a colpi di sciabola e di lancia. In un sol giorno 500 Armeni vennero così uccisi. Sessanta tra donne e bambini perirono in un incendio appiccato dai Turchi. Ma è stato specialmente contro i ragazzi che i Turchi si abbandonarono alle maggiori atrocità. I giovanetti venivano inchiodati ai muri e finiti a colpi di baionetta. Oltre duecento giovanotte furono portate via dai Curdi, violentate, poi uccise. Il cimitero è colmo di cadaveri ai quali sono state tagliate le gambe, le braccia, il naso. Lo spettacolo è orribile. Compiuti i massacri, un sacerdote turco annunziò che la campana della chiesa non avrebbe mai più suonato e sostituì la croce con una mezzaluna » (Corrispondenza di D. G. da Zurigo al Secolo di Milano, 3 ottobre 1915).
La Neue Zürcher Zeitung continua a pubblicare i documenti dai quali risulta in modo schiacciante quante infamie abbiano commesso i Turchi. Ecco cosa dice una lettera che il giornale pubblica da Tabris in Persia:
« Dopo aver vagato per due giorni, giungemmo finalmente a Pajatschuk. Entrando nel villaggio, fummo colpiti dal silenzio di morte che vi regnava. Per le strade vagavano soltanto cani affamati. Le porte e le finestre delle case erano infrante. Solo pochi edifici erano rimasti intatti. La chiesa era stata saccheggiata e profanata. Lo spettacolo di tanta rovina era opprimente. Quando abbandonammo il villaggio trovammo soltanto dei cadaveri mutilati, sventrati, gettati attraverso le strade nelle condizioni più orribili e raccapriccianti. Non avremmo mai creduto che uomini avessero potuto compiere infamie simili » (Corrispondenza da Zurigo al Giornale (l’Italia di Roma, 21 ottobre 1915).
« Porto Said, ottobre. Cinque incrociatori francesi hanno sbarcato qui alcuni giorni or sono oltre 4200 profughi armeni, uomini, donne, vecchi, bambini, sfuggiti miracolosamente alle stragi turche e salvati dalle navi da guerra incrocianti sulle coste della Cilicia e della Siria settentrionale» (Primo periodo di un articolo di Aldo Cassuto in un numero di ottobre 1915 del Secolo di Milano).
Da calcoli approssimativi, si può stimare a più di un milione il numero delle vittime trucidate in nome dell'« Unione e Progresso » cioè del Governo giovane-turco, l’alleato dei Tedeschi, degli Austriaci e dei Bulgari. Educati alla scuola del «Sul-
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tano Rosso», gli allievi hanno di molto superato il maestro: Enver Pascià ha giurato di annientare la razza armena, e se è vera la notizia che, dopo la presa di Erzerum, i Russi trovarono vivi solo 16 Armeni dei 40.000 che abitavano la città, ben si può dire che il Dittatore turco-tedesco mantiene la parola.
Ma il sangue di tante vittime innocenti grida vendetta, e il numero dei morti graverà di molto sulla bilancia allorquando l’ora della vittoria sarà finalmente suonata e si rifarà un’umanità nuova affrancata dal militarismo prepotente e liberata per sempre dal nefasto incubo turco.
Milano. AvV.&E.MeILLE.
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LA GUERRA
NELLE GRANDI PAROLE DI GESÙ
Guai a voi dottori della legge! perciocché avete tolta la chiave della scienza; voi medesimi non siete entrati, e avete impediti coloro che entravano.
Luca, XI, 52.
. Voi avete udito che fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico.
Ma io vi dico; amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, late bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi fanno torto, e vi perseguitano. Matteo, V. 43, 44.
I. Gli elementi essenziali degli evangeli. L’affermazione degl’inviolabili valori individuali e la elevazione degli umili. L’individuo nel concetto dello Stato in Roma.
jtto il cristianesimo — inteso non nella formazione storica cui viene dato questo nome, ma nella essenza sua vitale, costituita dalle fonti originarie — è negli evangeli e, sopratutto, nei tre primi. Uno degli elementi centrali di questi risiede nel concetto espresso da Gesù della inviolabilità della persona umana, del pregio infinito del nostro essere in quanto viene considerato come suscettibile di un infinito progredimento morale in virtù di una forza puramente interiore.
Quando Crisostomo disse: «ninno non.può essere offeso se non da se medesimo» volle, certamente, mettere in rilievo questa affermazione capitale della dottrina cristiana, che cioè, la personalità umana è collocata così in alto nella scala dei valori etici e sociali che la sua dignità non può essere menomata da malevolenza nemica, per quanto questa possa essere implacabile e l’offesa sanguinosa.
La ragione politica prevalente dell’inconciliabile antagonismo tra Roma e l’evangelo di Gesù fu in questo concetto ultra-individualistico posto a base del cristianesimo, in questa magnifica elevazione dell’umile mancipio del mondo antico, solo perchè legato da un diretto vincolo di filiazione al Dio-Padre, contro la onni-
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potenza dello Stato, contro la religione politica divinizzatrice del Cesare, che ogni valore individuale annientavano nella cieca, formidabile entità collettiva.
Ricordate le parole di Matteo (1) « conciossiachè il figliuolo dell’uomo sia venuto per cercare e per salvare ciò che era perito ». « Qui primamente, osserva Harnack (2), vediamo dileguarsi tutto ciò che è esterno ed appartiene unicamente al futuro; è l'individuo che è salvato, non il pòpolo o lo Stato ». La forza di Roma non ascese al dominio del mondo se non attraverso al ferreo inesorabile concetto politico che ne guidò fazione. L’individuo fu il relativo che scompariva innanzi all'assoluto, che fu lo Stato. Se la sapienza del Diritto circondò il civis di guarentigie e di onori, nell'orbita della sua attività pubblica e privata, tuttavia lo lasciò sempre troppo debole ed indifeso innanzi alla illimitata potestà della res publica, onde la gloria di Roma, nel periodo di suo massimo fiorimento, appare oscurata da smarrimenti di valori morali e da efferate violenze.
Roma imperiale fu l’esempio massimo, nella società antica, del patriottismo fondato, prevalentemente, sul concetto della onnipotenza dello Stato e della legittimità- di un indefinito accrescimento della sua forza. « Tacito non contesta l'onnipotenza di Cesare, nè questa suscita scrupoli in Traiano 0 in Marco Aurelio. Tu omnia, grida il Senato acclamando Probo, e Ulpiano costruisce la teoria del diritto di Stato quando dice: « Quidquid principi placuit legis habet vigorem » (3).
Potrebbe affermarsi che in Roma l’elemento politico avesse preso, nella concezione dello Stato, una decisa superiorità su i fattori economici, sempre presenti ed agenti in ogni fatto sociale, che avevano avuto una influenza preponderante nella vita dei piccoli stati e delle città singole del bacino mediterraneo, in così aspra lotta fra loro nel campo della concorrenza commerciale. Una siffatta concezione dello Stato e dell’individuo conduce alla conquista e al rude dominio della forza che ignora la pietà e il limite segnato dal diritto altrui, onde fevangelo che proclama l'eguale intrinseco valore di tutti gli uomini, la loro inviolabilità.che afferma l’assoluta superiorità dello Spirito ad ogni autorità umana, e la eccellenza morale dei principi di amore, di perdono, di abnegazione, non può rappresentare per Roma che un pericoloso, temibile elemento di dissoluzione. I precetti di Gesù che rivendicano la libertà umana — la libertà cui Giovanni (4) pone a fondamento la conoscenza della verità — sono negatori della onnipotenza dello Stato, sovvertitori delle sue basi, avversi ad ogni accrescimento di forza destinato ad accrescimento di dominio e di ricchezza.
(1) Matteo. XVIII, 11.
(2) Harnack, L’essenza del Cristianesimo, Conferenza XV.
(3) Yves Guyot, La Démocratie individualiste, Chap. IH.
(4) Giovanni, Vili, 32.
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LA GUERRA NELLE GRANDI PAROLE DI GESÙ
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IL La importanza della vita interiore. L’avvento del Regno di Dio. La irriducibile antitesi fra gli evangeli e la guerra.
Intimamente legato a questo elemento essenziale dello spirito dell’evangelo è l'altro, non meno essenziale, della necessità per l’uomo di una interiore purificazione, l’affermazione che la soluzione di tutto il problema morale debba procedere da un affrancamento della coscienza, da un’intima liberazione sua da ogni soggezione all’odio, al peccato, al male. Questa proclamazione del valore assoluto della interiorità sugli aspetti contingenti del mondo fu una delle innovazioni più profonde della dottrina di Gesù, che, certo, sotto ¡1 riguardo del carattere di universalità e di autorità con la quale fu da lui compiuta, non trova riscontri di precedenti nell'etica del mondo greco-romano, nè in quella dell’ebraismo. « È vero, osserva Harnack (1), che Platone canta l’inno sublime dello Spirito e lo distingue dal mondo dei fenomeni, affermandone l’origine eterna. Ma egli intende lo spirito intelligente, che contrappone alla materia inerte e cieca, e il suo messaggio si rivolge ai sapienti. Gesù, al contrario, grida ad ogni povera anima, ad ogni essere che abbia sembianza umana: « voi siete figli del Dio vivente, e non solo siete da più di molti passeri, ma di tutto il mondo».
L'invocazione dell’avvento del regno di Dio, consacrata nella preghiera che Gesù stesso insegnò (2), e il significato da lui dato a tale avvento, nel senso che esso non dovesse verificarsi nel campo delle tangibili realtà, ma che cominciasse già per gradi, ad attuarsi nel mondo delle coscienze (3), nel dominio sconfinato delle anime, sono un segno della importanza e del pregio dato dal Cristo a questa interiorità. nella quale le beatitudini celebrate nel sermone del monte (4) devono trovare la loro feconda germinazione. Tutte le beatitudini procedono dallo Spirito e vanno allo Spirito: esse -esaltano l’umiltà, la mitezza, la purità del cuore, la misericordia, l’amore della giustizia e della pace, ma Gesù pare voglia compendiarle in una più alta che tutte le abbraccia: nella disarmata tolleranza delle offese, e dice: « voi sarete beati quando gli uomini vi avranno vituperati e perseguitati, e, mentendo, avran detto contro a voi ogni mala parola per cagion mia » (5).
Dodici secoli, più tardi, colui che della dottrina del Cristo sarà l’interprete più vero e migliore, verrà, per la tacita strada che da Perugia va a S. Maria degli Angeli, mostrando a frate Lione dove sia perfetta letizia, e porrà al vertice delle beatitudini le stesse umili pacifiche virtù (6).
È dunque nel profondo cuore di ogni creatura che questa secreta fatica di liberazione e di elevazione, che è un tormento e una gioia ad un tempo, deve avere il suo
(1) Harnack, op. cit., Conferenza IV, cap. II.
(2) Matteo, VI, 9, 13.
(3) Luca, XVII, 21.
(4) Matteo, V, VI, VII.
(5) Matteo, V, 11.
(6) I Fioretti di S. Francesco, Vili.
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compimento. Chi medita questi valori fondamentali del cristiansimo; l’infinito pregio dell’anima umana e l’inviolabilità di ogni creatura, la necessità che ogni gioia della vita proceda non da possessi di cose vane e periture, ma da una ascensione progressiva dello Spirito verso la verità, la libertà, l’amore, la giustizia; chi medita queste an-nunziazioni fondamentali del Cristo e le considera sub specie aelernitatis, può facilmente riconoscere la elementare, irriducibile contraddizione che esiste tra l'evan-gelo di Gesù, nel suo spirito e nei suoi particolari precetti, e la guerra.
III. L’idea di patria e gli evangeli. La spada di Matteo e il fuoco di Luca. Il “ Sermone del Monte ” nel pensièro di Tolstoi.
Nello insieme dei rapporti e degli interessi tra lo Stato e l’individuo, così cóme Roma li intese, la guerra era il trionfo dell’assoluto, il prevalere indeprecabile della ragione sociale, innanzi alla quale i singoli valori relativi scomparivano, non avevano neppur modo di affacciarsi. Tale può dirsi essa sia ancóra oggi, nei suoi fattori psicologici ed etici: una violenta trascendenza di tutti i valori individuali verso l'interesse di una collettività: stirpe, patria, nazione. Stato.
Ma a questo sanguinoso, crudele giuoco della storia Gesù negò recisamente ogni legittimità, poiché egli non conobbe che un’unica venerabile e suprema legge di salvezza per tutti gli uomini: la santità della vita e la sua inderogabile inviolabilità, figli oppose all’assoluto: stirpe, patria, nazione. Stato, l’assoluto: uomo, individuo, persona. Egli condanna l’uccisione e il ferimento, pure se sieno usati a difesa da una aggressione. Nella notte di Getsemani all’unico difensore suo che trae la spada grida: « riponi la tua spada nel luogo suo, perocché tutti coloro che avran presa la spada periranno per la spada » (i).
In una concezione così elevata del dominio di una legge universale d’amore, l’idea di patria, cioè, di un amore limitato, circoscritto, non può trovar posto, poiché essa è assorbita da un ideale infinitamente più vasto. Negli evangeli si ricercherebbe invano un incitamento, sia pure indiretto, all'amore della patria, agli obblighi del cittadino verso di essa. I confini della ragione del vivere e dell’operare sono stati spostati e portati assai più innanzi della cerchia della civitas, verso una lontana linea ideale, tra le estreme latitudini, entro le quali dovranno raccogliersi tutte le patrie e tutti gli uomini che vivranno la vita dello Spirito e intenderanno i due supremi comandamenti: l’amore di Dio e l’amore dei fratelli (2).
Così, sotto questo riflesso, Gesù non è il liberatore nazionale politico invocato ed atteso da Israele. Egli non parla della patria, egli proclama: « il mio regno non è di questo mondo (3) » e dice le parole più luminose di sua saggezza. Egli è venuto
(1) Matteo, XXVI, 52.
(2) Matteo, XXII, 36-40; Marco, XII, 29-31; Luca, X, 25-28.
(3) Giovanni, XVIII, 36.
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non per compiere la impresa di liberare Israele dalla soggezione di Roma, ma per una liberazione più vasta e sostanziale, che non si fermerà ad un popolo, che si estenderà a tutte le genti, poiché sarà la liberazione delle anime.
Egli vuole che una lotta si combatta, difficile e tormentosa, ma che essa si svolga sólamente, nell’intimo del cuore, nel segreto della coscienza, scevra da ogni offesa fraterna. « Non pensate che io sia venuto a metter pace in terra, io non son venuto a mettervi la pace, anzi la spada» (i). «Fuoco son venuto a mettere in terra; e che voglio io se già è acceso? Vi pare che pace io sia venuto a dar sulla terra? no, dicovi, ma separazione (2) ». Alla lotta tutta spirituale contro il male Egli incita con queste parole, e non certo a quella che importa odio ed effusione di sangue. Egli, che ha inculcato, non pure l’amore del prossimo (3), ma quello del nemico, e il perdono infinito (4), non può aver voluto qui esaltare il sentimento dell'ira e della collera e il gesto della violenza vendicativa che esplodono nella guerra.
Affermare, sull’autorità di Matteo e di Luca, che Gesù abbia ammessa e legittimata la guerra (5) non è, ragionevolmente, possibile, solo che si ponga mente a tutto il rimanente dello insegnamento degli evangeli ed in genere allo spirito che li anima nella loro interezza.
La spada ed il fuoco di cui Gesù parla, l’infrangimento degli affetti domestici, la discordia e la separazione insorte tra la madre e il figliuolo per ragione di lui, sono gli strumenti e i risultati inevitabili della nuova milizia da lui istituita, ma essi hanno una consistenza puramente spirituale, stanno a rappresentare la tenace lotta delle forze dello Spirito contro l’errore e il male, in tutte le loro forme ed atteggiamenti.
Altro significato a queste parole di Gesù non si può dare, e volere inferire da esse una giustificazione della guerra vale quanto negare l'intero fondamento etico del cristianesimo, tutto il sermone del monte che di esso è la parola più viva di verità e di vita, il suggello di ogni sua eccellenza.
Il Tolstoi (6), esaminando i capitoli degli evangeli nei quali si parla della missione dei dodici, e dai quali il luogo ricordato di Matteo è tratto, osserva che: « nulla definisce più chiaramente la vera significazione dello insegnamento di Gesù quanto il discorso, ripetuto nei tre evangeli, che egli indirizza ai suoi discepoli prima ¿’inviarli a propagare la sua dottrina ».
Lo scrittore russo si domanda il perchè delle persecuzioni e della morte predette da Gesù ai suoi seguaci, e ne vede chiara la ragione. « Se si penetra la dottrina nel suo insieme, dice il Tolstoi, tale quale è espressa nel sermone sulla montagna e in tutto l’evangelo, se si intende che Gesù proibisce formalmente, non soltanto l’uccisione, ma la resistenza alla violenza, il giuramento (questa cosa che sembra poco importante e che conduce alle peggiori violenze) i tribunali (cioè a dire le puni(i) Matteo, X, 34-38(2) Luca, XII, 49-51.
(3) Matteo, V, 21-24.
(4) Matteo, V, 43-44; XVIII, 21-22.
(5) P. Orano, Gesù e la Guerra in Bilychnis, Roma, Febbraio 1915.
(6) Tolstoï Léon, Les quaires évangiles, Paris, P. V. Stock, vol. II, pag. 14, 15...
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zioni) ogni resistenza alla violenza e al furto (per conseguenza la proprietà) proibizione che avevano intesa i suoi primi discepoli, la divisione dei popoli (il famoso amor di patria), solamente si comprenderanno le persecuzioni che subì Gesù, così come i suoi primi discepoli ed i seguaci, e si intenderà ugualmente che Gesù prevede le persecuzioni che Lui ed i suoi discepoli dovranno subire. Così diventa comprensibile la discordia che dovrà prodursi e della quale Egli parla ».
Poi il Tolstoi, passando, a parlare della natura propria della nuova dottrina, osserva che « se non si fòsse trattato che di una dottrina morale, della maniera di vivere nello stato di cose esistenti, i propagatori di questa dottrina, evidentemente, non avrebbero molestato alcuno; non si sarebbe avuto più la fiamma che brucia tutto, ma una candela che arde rischiarando coloro che sono vicino ad essa ».
«Se il cristianesimo non fosse stato che una dottrina religiosa sulla venuta di Dio nel mondo, per salvare gli uomini, nessuno la conoscerebbe, così come ignoriamo le credenze degli Zulù e niuno se ne cura. Non soltanto essa sarebbe scomparsa, ma non sarebbe mai sorta. Se non fosse stata che una dottrina sociale rivoluzionaria, dopo essersi formata da lungo tempo sarebbe tramontata, come è accaduto, per simiglianti dottrine in Cina e dovunque vi sono degli uomini. 0 i poveri si sarebbero impossessati dei beni dei ricchi e dei forti e a loro volta sarebbero divenuti ricchi e forti, o i ricchi e i forti avrebbero soppresso i poveri e la scintilla si sarebbe estinta ».
« Ma la scintilla non si è spenta, ed essa non si spegnerà, perchè Gesù parla non delle regole riflettenti la migliore maniera di vivere nella società esistente, nè delia maniera di pregare Dio, nè di ciò che è Dio, nè dei mezzi di ricostruire la società ».
« Egli dice la verità sull’uomo, sulla sua vita; e l’uomo che ha compreso in che cosa consiste la sua vita, vivrà questa vita. L’uomo che ha compreso il senso della vita, non può più vedere questo senso in altra cosa. Quando egli ha compreso che vi è la vita e che vi è la morte, egli non può non andare verso la vita e non può non fuggire la morte, quali che sieno gli ostacoli che possono trovarsi sul cammino della vita; i precetti morali, Dio, le credenze umane, l’ordine sociale».
«Gesù ha insegnato la sua dottrina non per dire agli uomini che Egli è Dio, non per migliorare la vita degli uomini su questa terra, non per abbattere il potere, ma perchè nella sua anima, come nell’anima di ciascun uomo. Egli sapeva che era la coscienza di Dio che è la vita e alla quale ogni male è contrario ».
« Gesù sa e ripete sempre che Egli dice ciò che dice, e che ciò che Egli dice è Dio nell’anima di ciascun uomo».
IV. La guerra nel sermone profetico secondo Matteo, Marco e Luca. Il dispregio delle ricchezze e la prevalente giustificazione economica della guerra.
I sostenitori di un evangelo tutto penetrato di ardore bellico ricordano, anche, a favore della loro tesi, l’avvertiménto di Matteo (i); « or voi udirete guerre e romori di guerra, guardatevi, non vi turbate; perciocché conviene che tutte queste cose av(i) Matteo, XXIV, 6-13.
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vengano » e quelli di Marco (1) e di Luca (2), nei quali è espresso il medesimo pensiero. Anche qui, però, le parole dei sinottici sono ricordate con riferimento, soltanto, al senso letterale di esse e senza alcuna correlazione a quanto è detto nel rimanente del testo.
In Matteo, come in Marco ed in Luca, Gesù, riportandosi ad alcuni elementi delle credenze popolari del suo tempo, e che avevano costituito tanta parte della predicazione del Battista, parla della fine del mondo e della venuta del figliuolo dell’uomo per il giudizio finale, ed enumera tutti i mali che precederanno il grande avvenimento: guèrre, pestilenze, fame, terremoti, e dice come i discepoli suoi saranno messi nelle mani altrui per essere afflitti e saranno uccisi e odiati da tutte le genti a cagione del suo nome.
Qui è evidente come le sue parole non mirino affatto a presentare la guerra come un fatto che debba essere nell’ideale divino delle cose, nel normale divenire del regno di Dio ma, al contrario, come un male che si dovrà subire in attesa della liberazione finale. Ed Egli aggiunge che molti si odieranno l'un l’altro, che molti falsi profeti sorgeranno, che l’iniquità sarà moltiplicata, e la carità di molti si raffredderà, ma che chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato.
La guerra, dunque, è tra i mali di questa estrema decadenza del mondo, essa è tra i segni rivelatori della finale rovina, ma il Maestro assicura che « chi avrà perseverato sarà salvato », cioè, chi avrà tenuto diritto è fermo il suo cuore contro lo spaventoso prevalere del male, contro l’impero dell'odio e della falsità, chi avrà custodita pura la sua anima quegli riceverà il premio nel giorno della liberazione.
E l’avvertimento ai discepoli che essi saranno messi in mano dei concistori, e saranno battuti nelle radunanze, e saranno fatti comparire innanzi ai re per cagion sua e l’esortazione a non essere in sollecitudine per quello che abbiano a dire in loro difesa, poiché Egli parlerà per la loro' bocca (3), e, in fine, l’altro avvertimento che essi saranno odiati da tutti per il suo nome, ma che non abbiano a turbarsi nè ad assumere alcun atteggiamento di lotta dinanzi alle persecuzioni, questa norma della condotta pratica insegnata da Gesù non contrasta, forse, apertamente, ad ogni dea di guerra? Egli dice che .la guerra « non sarà la fine », cioè, che questo male non sarà l’ultima espressione dell’attività della vita, poiché anch’esso passerà, e verrà dopo il regno di Dio. Ma i discepoli dovranno essere vigili (4), nella maniera più attiva e più alacre, contro questi mali, vigili in difesa della dottrina di carità del Cristo, della quale dovranno essere gli assertori sino al sacrificio di se stessi, sino al martirio.
Questo dovere della vigilanza è anche meglio inculcato dalle eloquenti parabole dei due servi (5), delle dieci vergini (6), dei talenti (7). Da tutto il sermone profe(1) Marco, XIII, 7-13.
(2) Luca, XXI, 9-19.
(3) Matteo, X, 16-22.
(4) Matteo, XXIV, 42; Marco, XIII, 33-37(5) Matteo, XXIV, 45-50: Luca, XII, 42-48.
(6) Matteo, XXV, 1-13.
(7) Matteo, XXV, 14-30; Luca, X, 11-27.
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tico, quale esso è riportato dai sinottici, la guerra appare come il male dei giorni più tristi del mondo, come un male disonorante, contro il quale deve elevarsi la pacata, serena, ma ognora vigile, protesta animata da spirito di amore e di tolleranza, ma che vuole significare la intima, intatta libertà delle anime, che non riconoscono alcun diritto al male di essere e di dominare, la pacata, vigile, protesta, alla quale Luca incita con la sublime esortazione « possedete le anime vostre nella vostra pazienza » (i).
Gesù non ha pronunziato un giudizio aperto sulla guerra; per lui la questione era superata dal suo insegnamento morale, che della legittimità della guerra è tutta una inesorabile condanna. Questa è costante in tutte le pagine di Matteo, di Marco, di Luca, di Giovanni, più che altrove nel sermone del monte, ma dovunque, poi, in tutti gli ammaestramenti, le parabole, le raccomandazioni, i consigli.
Il dispregio delle ricchezze e la esaltazione della povertà (2), che troviamo espressi in ogni pagina degli evangeli — la buona novella era annunziata ai poveri (3) — sono in antitesi con la giustificazione della guerra, che parte da presupposti di necessità, tra i quali è sempre prevalente una ragione di conquista o di difesa di valori economici.
Anche la guerra più, apparentemente, idealistica nei suoi motivi determinanti, si riduce, nel suo intimo contenuto, alla prevalenza di una concezione materialistica della storia. Le ragioni economiche della giustificazione politica della guerra riposano sopra un falso concetto della vita, attraverso il quale la « grande illusione » (4) della guerra profittevole, che ignora o sconosce la legge della interdipendenza economica delle nazioni, è venuta crescendo e consolidandosi nelle diffuse empiriche nozioni dei fatti sociali.
Negli aspetti e nelle attività sue elementari, nella sua nuda esteriorità, la guerra è l’affermazione, il trionfo della forza che vuole proclamare la incapacità e la insufficienza della ragione, e che si scatena cieca e distruttrice. Essa è la negazione di ogni significazione razionale della vita, l’impero della feroce formola di Hobbes « homo homini lupus ».
V. L’amore della morte sacrificale e la condanna dell’odio. La universale solidarietà nella lotta contro il male. Il dolore nella essenza della vita e la carità.
Non può dirsi che la guerra trovi riscontro di rispondenze nel concetto della morte quale esso emerge dagli evangeli. Gesù ha voluto mettere nell’animo dell’uomo un’implacabile senso di avversione non per la morte, ma per l'odio, che digrada sino alla mancanza di sollecitudine e di simpatia, sino alla egoistica
(i) Luca, XXI, 19.
(2) Matteo, X, 9-10; XIX, 21-30.
(3) Matteo, XI, 5.
(4) Norman Angeli, La Grande Illusione.
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indifferenza per le creature sorelle. La morte deve essere guardata senza terrore, amata ed accolta, se occorre che l’uomo compia l’offerta sacrificale della vita. Ma il cuore deve essere puro di odio e di rancore. Di una tale offerta Gesù dà l’esempio con l’atto più completo e sereno di dedizione, e tutto il martirologio di coloro che testimonieranno col sangue la loro fede in Lui innanzi ai secoli barbari, al mondo avvenire nemico, sarà una conferma di questo tranquillo dispregio della morte, di questo eroico superamento dell’amore del proprio io.
Mentre Gesù ha innalzata la personalità umana a dignità non conosciuta innanzi. Egli ha insegnato all’uomo che il suo più alto pregio sarà raggiunto nella negazione del suo io, per un atto di amore verso Dio e verso gli uomini: « chi avrà perduta la vita sua per cagion mia la troverà» (1); «non temiate di quelli che uccidono il corpo e l’anima non possono uccidere » (2). Egli ha voluto così inculcare nei cuori l’amore della morte, ma non di quella che sopravviene nella feroce strage accesa dal primitivo impulso dell’uomo nemico dell’uomo, ma sì bene di quella incontrata in serena pacifica testimonianza della verità e della giustizia, nel sacrificio fatto augusto dal perdono.
In questa morte, accettata, non per un desiderio di distruzione, ma per un atto di amore, che vuole essere di creazione e di edificazione, l’affermazione del valore individuale raggiunge la più alta espressione nel momento stesso che quel valore pare sia negato. E la morte cristiana appare tanto più ricca di virtù eroica quanto più essa rimane non priva degli elementi della pura, semplice umanità.
Quale deciso risalto di forte umanità in quel presentimento di essa, che è già una separazione ed un transito, nella deserta tragica angoscia della notte di Getsemani, o in quel dolore calmo e raccolto, come fasciato di stoicismo, che erompe dalla visione della morte nelle pagine di Agostino! (3)
Come diverso è, invece, il senso della morte, e come totale è in esso la sparizione di ogni valore individuale, in quella immensa immolazione di vite, che è la guerra, per il trionfo di un assoluto, che è, pur sempre, un’entità limitata dinanzi agli universali dell'evangelo’
Nella quasi negazione di ogni realtà d’essere dell’individuo, cui sovrasta l’unica realtà dell’eterno ciclo, entro cui tutte le cose cadono per confondersi e rinnovarsi, nella mistica ebbrezza del dissolvimento, la morte diventa quasi un breve, indolente passo, il facile, inavvertito scorrere di un attimo che vanisce nel nulla.
Ma da questi annientamenti buddistici è lontana la umana serena filosofia del-l’evangelo.
Nessuna religione ebbe, meglio di quella di Gesù, un senso più sano dell’individua-lismo, e a ragione, fu osservato che il precetto « ama gli altri come te stesso » è « una formula individualistica, poiché la norma adottata è lo stesso individuo. L’evan-gelo dice:.« trasportate su gli altri una parte dell’amore che non ha bisogno d'esor(1) Matteo, X, 39, XVI, 25; Marco, VIII, 35; Luca, IX, 24.
(2) Matteo, X, 28.
(3) Agostino, Confession, lib. IX, cap. XI, XII.
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tazione, di suggestione, di fascini, che ciascuno prova per sè stesso, e in virtù del quale si conserva e si sviluppa» (i).
Nessuna religione dischiuse mai, come fece quella di Gesù, alla nostra coscienza un senso così limpido delle immutabili certezze umane, e ne derivò una così salda significazione delle responsabilità della vita. La intima umanità dell’evangelo, così grande nel suo tranquillo, uniforme e luminoso raccoglimento, la semplice, agile, e diritta legge morale, intesa alla restaurazione dei valori individuali, che ne è il sostrato vivificatore, questi elementi di puro riconoscibile ellenismo, portati ad una più nobile espressione nella nuova religione liberatrice, nel suo messaggio di letizia e di beatitudine, non lasciano campo alle degenerazioni del misticismo, attraverso le cui nebbie scialbe e sanguigne il genio sinistro e barbarico della guerra vorrebbe illuminarsi delle pure luci che vengono dallo Spirito.
La morte sacrificale cristiana è il culminare di tutta fattività, che non sarà mai pacificata, della potenza dello Spirito contro le forze e gli aspetti infiniti del male; e Gesù aveva inteso che questa lotta non verrà mai meno nelle sue multiformi, infinite esplicazioni. Essa sarà senza tregua, entro di noi, contro gl'istinti inferiori: le basse cupigidie, i duri egoismi, gli orgogli protervi, il manco di tenerezza per i fratelli. Essa si acuirà contro le infermità del corpo, a salvezza delle quali Gesù darà il dono della guarigione a chi avrà avuto la fede in Lui, come l’ebbe così magnificamente salda il centurione di Capernaum (2). Sarà la lotta contro tutto ciò che l'umanità ha in retaggio dai padri di colpa, di peccato, di male e di cui porta le stigmate nella carne dolorante. Una lotta per lo adempimento di una più alta morale, quella dei doveri verso le generazioni che verranno, affinchè l’umanità possa, progressivamente, liberarsi della eredità della malattia e del delitto, e raggiungere una più vasta e chiara coscienza del bene, che l'avvicini sempre più al divino di cui è parte. Una lotta per l'avvento del Regno di Dio, ma che non conosca odii, non nemici, non armi, non uccisioni, ma l'unica sovrana legge di amore fraterno.
Doveva essere questa la redenzione dal vecchio concetto della vita dominato da un senso di così incomponibile antagonismo tra gli uomini, e di così tragico fatale destino di dolore, perchè l’uomo salisse alle altezze serene di una visione del mondo governato da una legge di universale solidarietà, mercè la quale il dolore potesse essere attenuato e, in gran parte, vinto.
Così, nella concezione cristiana, il dolore acquista una significazione nuova, una virtù operativa che furono affatto sconosciute dal mondo antico. La vita è, nella sua essenza, nel suo lento, eguale fluire, una sofferenza. Al di là del piacere, oltre il più alto limite della ricchezza, della potenza, della scienza sono la nausea, la vana ricerca d’una gioia più piena, lo stanco piegarsi dell’orgoglio e delle speranze domate dallo irraggiungibile che è nelle forze e nelle leggi della natura, quel « taedium vitae», che assale tutti gli spiriti che hanno, con segreta tenacia, meditato il mistero ultimo delle cose e dell’universale patire, e che ebbe la più comprensiva espressione nelle parole di Giobbe «la mia anima si annoia della mia vita» (3).
(1) Yves Guyot, op. cit.. Chap. XI.
(2) Matteo, VIII, 5-13; Luca, VII, 1-10.
(3) Giobbe, X, 1.
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Il profeta d’Israele aveva detto le parole di disperata amarezza « chi accresce la scienza accresce il dolore » (i) e aveva voluto significare come la più alta delle attività dell’uomo, quella che investe tutto il problema della conoscenza, non potesse che trovare, al termine dell’ansiosa indagine, più che una gioia, una pena, di fronte all’ultimo invalicabile confine: l’inconoscibile.
Ma Gesù affermò che questo triste destino può essere superato. Egli, partendo da una premessa di fatto tutta pessimistica, giunge, attraverso una valorizzazione nuova degli antichi elementi psichici, all’affermazione decisa, sicura di una possibilità per la vita di tramutarsi in un bene, solo che gli uomini abbandonino i sentimenti dell’egoismo e dell’odio e seguano la sua legge.
Il sentimento di un Dio-Padre che non può volere che il bene di tutte le sue creature, e nel quale esse debbano abbandonarsi con piena, illimitata fiducia, l’infinita -sovrana potenza assegnata alla fede — donde Paolo trarrà la Sostanza della sua teoria della giustificazione mercè la sola fede (2) — l'incitamento a non preoccuparsi del domani, poiché basta a ciascun giorno il suo affanno (3), e quello invito a riguardare agli uccelli del cielo che non seminano e non mietono e non accolgono in granai e pure sono nutriti (4), e ai gigli dei campi, che non faticano e non filano, e tuttavia sono vestiti più splendidamente di quanto non fosse Salomone in tutta la sua gloria (5), questi richiami ai sentimenti e alle forze morali che devono regolare la condotta umana, rivelano il pensiero di Gesù intorno ai beni che la vita può offrire quando sia liberata da tutto ciò che, per opera degli uomini, possa accrescere il dolore che essa, naturalmente, porta con sé.
È per questo avanzare dal vecchio concetto pagano a quello nuovo cristiano della vita, è, per questa guerra, tutt’affatto diversa da quella di un tempo. Che la spada di Matteo fu brandita e il fuoco di Luca acceso. E la nuova lotta non consente pacifismi snervanti, nè quietismi degenerativi: la vigilia sarà strenua e la azione senza riposo, e, tuttavia, il male da combattere sarà sempre grande e molte saranno le lagrime,.... ma sarà già stato fatto un lungo cammino se l’uomo non odierà e non ucciderà più l’uomo.
Sarà già il sorgere dell’età di cui sognò il poeta d’Italia più religiosamente umano:
. ... un giorno di pace e lavoro, che l’uomo mieteva il suo grano, e per tutto nel cielo sonoro, saliva un cantare lontano (6).
(1) Ecclesiaste, I, t8.
(2) Paolo, Epistola ai Galati, II-16, III.
(3) Matteo, VI, 34.
(4) Matteo, VI, 26.
(5) Matteo, VI, 28-29.
(6) Pascoli, Myricae, • Alba ».
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VI. La proclamazione delle verità e dei valori universali. La serena umanità degli evangeli. Iddio è Amóre.
Contro ogni senso di limitazione e di particolarsimo nel concetto della vita e nella conoscenza della verità, Gesù annunziò una legge della vita e una coscienza della verità per eccellenza universali. Ogni significazione razionale e morale era assente dal vecchio mondo del fratricidio, alimentato da odii e da vendette che parevano rinascere dal suolo stesso delle patrie e dall’anima stessa delle stirpi, ciascuna di esse perseguendo un suo ideale di verità e di giustizia, ed offrendo per esso innumerevoli vittime al dolore ed alla morte.
Era necessario contrapporre al relativo della esperienza storica l’assoluto di una suprema legge morale. Il nuovo comandamento, semplice, diritto, inderogabile, era: non uccidere. L’uccisione era condannata; essa era sempre un delitto, tanto inutile quanto brutale, quale che fosse la ragione onde ad essa si voleva ricorrere, paresse anche necessaria per una urgente difesa del bene e del diritto. Niuno poteva affermare quale fosse la verità, la giustizia in nome della quale fosse lecito uccidere: nel relativismo dell’esperienza storica ciascuno di coloro che partecipano alla guerra porta con se una sua unilaterale coscienza della verità e della giustizia, onde tutti i combattenti, divisi tra loro da differenze che sembrano non eguagliabili, hanno una profonda medesimezza di fede: la certezza della santità della loro causa e dell’essere essa degna di trionfare. Qui torna alla mente la domanda del preside romano a Gesù: « quid est veritas? » (i). Il problema agitatore dello Spirito, i termini antitetici della storia sono racchiusi nel quesito, che egli crede porre alla limitata consapevolezza umana.
La risposta di Gesù fu in tutta la contenenza del suo insegnamento. Egli predicò una verità e una giustizia che superavano di altezze infinite gl'ideali di una gente avversi agli ideali di altre genti, un valore universale ed eterno che assorbiva tutti i valori contingenti ed episodici, una giustizia che era il diritto, la legge e l’equa norma di tutti, e vide molto in iilto, sui tempi e sul millenario dissidio, una storia nuova che affermasse il principio fondamentale della nuova civiltà: la possibilità dello svilippo della personalità umana nella pienezza delle sue facoltà, nella lieta, tranquilla fatica tra liberi ed uguali. Il senso dominante della vita, per l’evangelo di Gesù, è tutto nella profonda trasformazione morale, nella quale le anime devono avvicinarsi alla coscienza della universale solidarietà in virtù di un impulso di amore, e dell’abbandono di tutto ciò che appartiene alla sfera degli interessi egoistici, delle passioni sensuali e delle vane sollecitudini. Al giovane che, prima di seguitarlo, gli chiede che gli conceda di seppellire il cadavere del padre, Gesù risponde: « lascia che i morti seppelliscano i loro morti » (2). Così alacre, senza riposo, ardente d’inestingui(1) Giovanni. XVIII, 38.
(2) Matteo, Vili, 22.
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bile fuoco interiore deve essere l’apostolato della nuova parola che anche la breve ora consacrata ad un ufficio di pietà filiale appare un inutile dispendio che è necessario evitare!
L'universale, la sola cosa degna è l’amore, e Dio stesso è, sopratutto, amore. Ciò che solo importa, e ciò che solo ha valore, è il desiderio dell’anima di elevarsi ed unirsi a Dio; e l’anima sa che questa elevazione e questa unione sono possibili.
In una tale filosofia della vita tutti i problemi della storia sono assorbiti più che risoluti, poiché una meditazione di essi è già superata da così sublimi altezze dello Spirito.
La saggezza antica e lo stesso Socrate non ebbero mai una così nobile intuizione di perfezione morale.
« Già i vecchi teologi e i poeti della Grecia, osserva il Fouillée (1), avevano chiamato l’Amore il primo e il più potente degli Dei; Platone ed Aristotele avevano fatto anche dell’Amore l’essenza della natura; ma l’Amore non era ancora considerato come l’essenza di Dio stesso, e l'immutabile necessità sembrava sempre il primo carattere dell’ideale perfezione. In contrasto a ciò la metafisica ebraica poneva, come la più alta espressione delle cose, la libertà onnipotente del Creatore, ma quasi una libertà arbitraria ed indifferente, malgrado i grandi pensieri di carità che si confondevano ai suoi dogmi, come a quelli di Zoroastro, di Confucio e di Budda. Al di sopra della necessità, al di sopra della libertà, tutte le religioni, tutte le filosofie intravedevano nel loro Dio qualche perfezione essenziale e suprema, fatta per conciliare questi due contrari, rendendo la necessità tutta morale e purificando la libertà da ogni arbitrio. Il cristianesimo portò in questa nozione confusa la luce e il calore e la fece vivere sostenendo che Dio deve essere Amore ».
Tutto il dispregio delle ricchezze e dei beni terreni, il dispregio della concezione della vita fondata sul principio di lotta, di concorrenza, di conquista che an cora oggi prevale, questo dispregio che si leva così altero, e pur sereno, dalle pagine degli evangeli, è un prodotto spontaneo in un organismo sociale che riposi sopra un tale sistema di premesse morali. Esso è giustificato dalle parole: « cercate in prima il regno di Dio e la sua giustizia; e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte » (2). Il segreto, insomma, per raggiungere il bene nella vita sta, secondo lo spirito degli evangeli, nello anteporre ad ogni altro amore di cose terrene l’amore di Dio e l’amore degli uomini. In questa norma unica suprema è racchiusa la soluzione di tutti i problemi dell’ordine sociale.
Una preoccupazione di conflitti tra le nazioni per il prevalere dell'una sulle altre, di lotta tra una medesima gente per una migliore distribuzione della ricchezza sociale, la sollecitudine di una vigile tutela dei deboli, dei poveri affinchè non divengano vittime dell’ingordigia dei forti e dei ricchi, possono esulare dalla visione di una società che sia governata da una morale che abbia penetrata, come quella dell’evangelo vuole, le fonti vive e dirette dell’attività individuale. Conside(1) Fouillée Alfred, Histoire de lei philosophie, Paris, Ch. Delagrave, pag. 184.
(2) Matteo, VI, 33.
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rato sotto tale riflesso il vangelo non può dirsi una teoria pessimistica della vita. Quelle tra le parole di Gesù che potrebbero giustificare l’affermazione di un pessimismo dominante la dottrina non sono elementi essenziali di essa, ma piuttosto motivi, come si è avuto occasione di rilevare innanzi, parlando del sermone profetico, provenienti dalle credenze popolari dei tempi e affermazioni fatte per dare maggiore autorità all’insegnamento morale.
Così vanno considerate quelle frequenti invocazioni ad una prossima fine del mondo — che hanno dato modo di sorgere a tutta la dottrina escatologica così sviluppata da Paolo — e quel non meno frequente invito alla penitenza.
Ma di fronte a ciò quale magnifica esaltazione della vita nella proclamazione dei suoi intimi inviolabili valori universali e nelle supreme sanzioni stabilite per il rispetto di essi!
VII. Il problema della felicità “dove è il tuo tesoro ivi sarà il tuo cuore”. La “tristézza contemporanea”.
Lo stesso problema della felicità non è negato dagli evangeli, soltanto i termini ne sono spostati verso altro campo, ma la possibilità della sua soluzione è nettamente affermata: « Fatevi delle borse che non invecchiano, un tesoro in cielo che non vien mai meno, ove il ladro non giunge e ove la tignuola non guasta. Perciocché ove è il vostro tesoro ivi sarà il vostro cuore » (i).
Anche queste parole vogliono mettere in evidenza il valore della vita interiore e la pochezza, la vana consistenza dei beni e dei piaceri del mondo. Poiché il vostro cuore è dove è il vostro tesoro, sia il migliore e più vero tesòro nel vostro stesso cuore. È così qui affermata la superiorità e, potrebbe dirsi, la realtà, del mondo interiore su quello esteriore. Il problema del bene individuale, della pace dello spirito, della felicità può trovare una soluzione duratura dentro di noi- Il mondo dei desideri, delle inquiete avide brame passerà come uno sciame di sogni. Non fuori, ma dentro di noi è il segreto di una risposta al lungo chiedere, all'ansioso cercare. Coloro che hanno provato come sia debole e quasi nulla ogni influenza delle cose circostanti sopra alcuni nostri stati d'animo, cosicché pare che portiamo nell'intimo cuore, sottratto al dominio del mondo, il nostro male e il nostro bene, coloro che hanno sentito come tutta la visione della vita, del suo dolore e della sua gioia, sia sempre quella che il nostro io interiore e più nascosto ci presenta, coloro che hanno fatto queste esperienze, possono intendere la profonda virtù di liberazione che queste tra le grandi parole di Gesù contengono: « dov’è il vostro tesoro ivi sarà il vostro cuore ».
Quando, però, ogni possibilità di appagamento del nostro io sarà stata collocata fuori di noi, nel campo delle materiali contingenze, quando ogni ragione del nostro sperare e del nostro agire sarà stata assunta in un accrescimento di ricchezza e di
(i) Matteo, VI, 19-21, Luca XII, 33-34.
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potenza che valga ad avvicinarci, sempre più, alla felicità, ninna forza umana varrà più a segnare il limite insuperabile all’azione di ognuno e ad impedire che l’ingorda ricerca degeneri in contesa e accenda i sanguigni baleni della guerra.
E anche nel campo della stessa vita individuale, da questa travolgente gara per il superamento di ogni limite, da questo smarrimento dello stesso senso di esso, viene la causa di tante crisi morali, di quella così estesa inquietezza, che è quasi una sofferenza, e che fu detta «la tristezza contemporanea» (i). Paolo volle significare l’intimo patimento dell’anima che ha perduto il segreto della sua pace quando disse che «la tristezza del secolo produce la morte» (2).
Ma le parole di verità e di vita sono state dette anche per questo male dell'anima come per il suo epilogo più tragico: la guerra.
Il nostro destino, per la gioia e per il dolore, è, per gran parte, dentro di noi, come è in noi il graduale verificarsi del regno di Dio. Come il vangelo ha affermato, nell’ordine universale, la certezza di essere dell’individuo considerato nei suoi valori intrinseci e nel suo destino immortale, in contrasto al concetto che ne ebbe il mondo antico di un’« atomo opaco del male » volgente, per una precipite orbita, verso una fatalità di odio e di guerra, così esso ha stabilito, nell’ordine stesso individuale, la certezza dei valori dello Spirito sopra le vane parvenze e gli aspetti mutevoli ed effimeri del mondo dei fenomei.
Vili. L’evangelo in relazióne al concetto di Diritto e di Autorità.
Nel nuovo senso della vita annunciato dagli evangeli, e che costituisce la ragione di essere di tutto l’agire umano, la guerra non può venir considerata come una delle fòrze operanti nel mondo per il trionfo della giustizia. Il male — e tale è l'uccisione — è sempre male, e non è possibile che esso diventi un mezzo di difesa del bene.
In tutto l’insegnamento di Gesù è profondamente radicata la convinzione che il bene non deve attendere mai la sua rivendicazione dalla forza materiale, dalla violenza. E qui giova considerare qualche altro aspetto dello spirito degli evangeli, cioè, la sua relazione con i concetti di Diritto e di Provvidenza.
Il precetto della non resistenza al male con la violenza, così esplicitamente enunciato da Matteo e da Luca (3), ha indotti molti ad affermare che Gesù abbia negato ogni riconoscimento al Diritto, alle istituzioni giuridiche, alla autorità costituita. Sono note le idee del Tolstoi (4) su tale materia, alle quali venne data dal grande pensatore russo così larga diffusione e con un fervore di vera propaganda religiósa. Egli spinge, come abbiamo notato innanzi, sino alle estreme conseguenze, con un
(1) Fierens Gevaert, Les trois tristesses apostoliques in «La tristesse contemporaine », Paris, Alcan.
(2) Paolo, Seconda epistola ai Corinti, VII, io.
(3) Matteo, V, 39-41, Luga, VI, 28-30.
(4) Tolstoi, Il Regno di Dio è in Voi.
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rigore logico inoppugnabile, il precetto evangelico, giungendo a negare ogni legittimità all’azione dell’autorità che voglia dirsi cristiana, quand’essa vuole difendere il Diritto mediante la forza. Tutta la sua opera di apostolato contro la guerra e contro il servizio militare, che gli valse le persecuzioni del governo e della chiesa russa, fu ispirata a questo concetto. In verità, è innegabile che ogni sollecitudine di una difesa armata del Diritto è assente dall’evangelo, come è lontana da esso, del pari, come abbiamo già veduto, ogni idea di patria e di doveri verso di essa. Anche l’idea del diritto nazionale e individuale, idea di relatività e di contingenza, è assorbita qui da un’idea assoluta universale ed eterna: l'idea di Dio concepito, ormai, nel cristianesimo, come suprema perfezione di giustizia. A quésta idea di una divinità giusta e santa la coscienza umana si era venuta elevando lentamente» attraverso un cammino lungo ed arduo, nel quale i poeti e i pensatori di Grecia e i profeti del-l’Ebraismo furono come luci diradanti le caligini che involgevano i vecchi miti e le favole degli dei partigiani e malvagi.
Nella essenza delle parole di Gesù è l’intima persuasione che al trionfo, della ragione individuale deve bastare la fede piena, sicura, illimitata in Dio, che è per se stesso Giustizia, e che non può non affidare del trionfo finale di questa. Per una coscienza cristiana la forza materiale era sempre una povera cosa; ciò che solo importava, perchè il male non prevalesse e la virtù uscisse vincitrice, era la fede in Dio. Gesù aveva detto: « tutte le cose le quali con orazione richiederete, credendo, voi le riceverete » (i).
Il pensiero di Gesù a riguardo del riconoscimento dell'autorità costituita si rannoda a questo suo concetto del Diritto. L’episodio tanto ricordato del quesito propostogli se si dovesse o meno pagare il tributo a Cesare è di una significazione evidente. La sua risposta « mostratemi un danaro; di cui porta esso la figura e la soprascritta? —rendete dunque a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio» (2) vuole, non tanto stabilire la separazione dei poteri, quanto dare risalto alla idea che le cose terrene, e il segno del comune valore di esse, il danaro, devono essere considerate come estranee alle sollecitudini di una coscienza cristiana.
Più che di una inversione potrebbe qui parlarsi di una superazione di valori. Il riconoscimento della divisione dei poteri è l'aspetto esteriore delle parole di Gesù, ma la sostanza di esse rimane questo concetto di una superazione di ogni bene materiale da parte dei valori spirituali. Ricorre qui lo stesso pensiero di quello espresso nella esortazione ai discepoli « non fate provvisioni nè di oro, nè di argento, nè di moneta nelle vostre cinture, nè di tasca per lo viaggio, nè di due tuniche, nè di scarpe, nè di bastone; perciocché l’operaio è degno del suo nutrimento » (3); e di quello, ancora più comprensivo, che emerge dalle parole: « il mio regno non è di questo mondo » «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio» (4).
(1) Matteo, XXI, 21-22; Marco, XI, 23-24.
(2) Matteo, XXII, 17-21; Margo, XII, 13-17; Luca, XX, 20-26.
(3) Matteo, X, 9-10.
(4) Matteo, IV, 4.
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Non è dunque possibile derivare dai luoghi dei sinottici, dove si parla del tributo a Cesare, l’affermazione che Gesù abbia proclamato il dovere dell’ubbidienza all’autorità costituita,
La sostanza del rapporto giuridico-sociale, tra il suddito e l'autorità, è anch’essa trascesa, poiché la nuova religione ha, per la prima, posto, ormai, direttamente la coscienza umana al cospetto di Dio-Padre, perchè in Lui soltanto ritrovi la norma unica e la sanzione del Diritto e della Potestà.
Adolfo Harnack (1), esaminando, in uno dei più interessanti capitoli del suo noto libro, la questione, a pena qui accennata, vuole giungere alla dimostrazione della possibilità della coesistenza, nella evoluzione storica, della morale di Gesù e della legittimità dell’autorità costituita e delle istituzioni giuridiche in genere. Ma il suo sforzo di superare termini antitetici è evidente, ed egli stesso riconosce che i risultati e le conclusioni cui perviene sono lontani da ogni possibilità di sicure e recise affermazioni. Malgrado il diverso desiderio dal quale egli è animato il pensiero dominante di Gesù emerge lucido e potente dalle stesse sue parole: « le funzioni dell’autorità si fondano sulla forza, ed appunto perciò, secondo Gesù, si sottraggono ad ogni giudizio morale, anzi vi si oppongono per principio: "Così fanno i potenti Gesù ordina ai suoi discepoli di fare altrimenti. Il Diritto e gl’istituti giuridici che si fondano sulla forza. Sul potere di fatto e sull’esercizio di questo potere, non hanno alcun valore morale. Non di meno Gesù non comanda agli uomini di sottrarsi a questa autorità, ma di farne stima conforme al suo valore, e di indirizzare la propria vita secondo altri principi, ossia secondo i principi opposti; non adoperare la forza, ma servire. Ciò facendo, noi usciamo fuori del dominio degli istituti giuridici, perchè sembra essere condizione essenziale di ogni diritto raffermarsi con la forza, quando incontri opposizione ». E più innanzi lo stesso insigne studioso del cristianesimo scrive: « è un insulto all’evangelo il dire che esso legittima e santifica il diritto attuale e tutti gl’istituti giuridici esistenti in un dato momento storico. Lasciar sussistere e tollerare è ben altro che conservare e consolidare ».
Harnack ricorda, anche, sull'interessantissimo argomento, il pensiero del Sohm, e rileva come questi nel suo Diritto Ecclesiastico insegna che « il mondo dello Spirito è essenzialmente opposto a ciò che costituisce l’essenza del Diritto; e se col tempo nella Chiesa si vennero fondando istituti giuridici, ciò avvenne in contraddizione all’evangelo e alla comunità cristiana primitiva fondata unicamente sull’evangelo ». Il Sohm va anche più in là, e nelle sue considerazioni sopra la chiesa primitiva afferma, addirittura, che l’origine di tutti i mali della cristianità è l’avere accolto in sè stessa istituti giuridici.
Intorno alla questione a noi pare che le parole degli evengeli dicano tutto e lucidamente il pensiero di Gesù: « ma Gesù, chiamatili a sè, disse loro: voi sapete che coloro che si reputano principi delle genti le signoreggiano, e che i loro grandi usano potestà sopra esse.
« Ma non sarà così fra voi: anzi chiunque vorrà divenir grande fra voi sia vostro
(1) Harnack, op. cit.. Conferenza VI, cap. III.
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ministro; e chiunque fra voi vorrà essere il primo, sia Servitore di tutti » (i), Parole alle quali fanno riscontro, con profonda rispondenza spirituale, le altre: « togliete sopra di voi il mio giogo, e imparate da me, che io son mansueto, ed umil di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre » (2).
IX. L’evangelo in relazione al concetto di Provvidenza.
Il Dio odierno degli eserciti e delle vittorie!
Il concetto di un Dio provvidente, sollecito del bene delle sue creature, quale appare dagli evangeli, non è quello che incontriamo in Seguito della sovrapposizione alla semplice dottrina primitiva degli elementi della complessa elaborazione teologica, Che si è venuta compiendo nella vita delle religioni positive organizzate e conservate dalle chiese nel loro sviluppo di istituzioni di natura storico-sociale.
In una religione che può dirsi, per eccellenza, la religione dello Spirito, quale è quella costituita dalla pura essenza degli evangeli, nella quale è reciso con taglio netto ogni legame della morale col culto esterno, con la liturgia e con le pratiche religiose, sia nelle parole del precursore Giovanni sia in quelle di Gesù, nella quale il saldo organismo della dottrina è tutto costituito da poche idee semplici, chiare, diritte, intese alla creazione di valori spirituali, il concetto di Provvidenza, riguardato come principio di norma, di ordine, di bene nel mondo, è anch’esso, di una grande lucida semplicità, e può assumersi nel documento culminante del cristianesimo: il sentimento di Dio-Padre.
In tutti gli evangeli le parole di Gesù mirano sempre ad infondere nell’animo di coloro che le ascoltano la serena certezza che Dio vigila, incessantemente, ài bene degli uomini e che non vuole, nell’amore infinito che lo muove, che la loro salvezza. Il rapporto di filiazione è la più sintetica espressione di questo concetto’della divinità, cioè, di una divinità, non solo perfettamente giusta e illimitatamente mise-ricorde, ma ancora, e sopratutto, amorosamente provvidente: « ma quant’è a voi, anche i capelli del vostro capo son tutti annoverati. Non temiate adunque; voi siete dà più di molti passeri » (3). « Misericordia voglio e non sacrificio » (4). Questo concettò di Provvidenza è, se può essere consentita la espressione, la coscienza della sicurezza di un migliore governo del mondo, di una sua più saggia economia, che la divinità, ormai, assicura, e nella quale coscienza gli uomini possono riposare.
Negli evangeli Iddio non appare che come principio di amore e di bene operante nella vita; Egli è la Stessa Vita, e la sua funzione di ministro della giustizia e di punitore è riservata, soltanto, all’ora del giudizio finale, al momento della parusia.
(1) Matteo, XX, 25-26; Marco, X, 42-44.
(2) Matteo, XI, 29.
(3) Matteo, X, 30-31.
(4) Matteo, IX, 13.
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a quando l’inesauribile pietà quasi non possa più trovar modo di esercitarsi. Egli, che conosce il male che rende triste l’uomo, non soltanto non accresce questo male, ma adopera la sua potenza per limitarne il regno.
Dagli evangeli traspare la profonda commiserazione di Dio per il dolore fìsico, per la infinita sofferenza, dalla quale la povera carne umana è travagliata, e le guarigioni che Gesù compie di ogni specie d’infermità sono la testimonianza di quella paterna commiserazione. Harnack (1) nota che da Gesù «è lungi ogni simpatia per il dolore fisico e per la morte. Egli non dice mai che la malattia sia salutare, e che il male sia sano; per lui la malattia è sempre malattia e la salute è sempre salute. Ogni male, ogni miseria è per lui cosa terribile, che appartiene al regno di Satana: ma egli sente in sè là forza del Salvatore. Egli sa che un progresso è solo possibile quando la debolezza sia superata e la malattia guarita ». « Fin dove arriva la paura, anzi fin dove arriva la vita — la vita nelle sue estreme e minime manifestazioni — fin là arriva la certezza che Dio siede al governo del mondo. Gesù ha gridato ai suoi discepoli le sentenze dei passeri e dei fiori del campo per liberarli dalla paura del male e Sella morte».
L'annunziazione di Gesù non è un’ascetica, èssa non nega quanto di umano vi è nella vita, e le ragioni per le quali questa è degna di essere vissuta. Lungi da essa le pallide luci di un misticismo arido e maceratore! La vita ha per Gesù sempre la sua bellezza ed il suo fascino: Ricordate l’episodio di Befania, nella casa di Lazzaro, il dolce atto della donna che versa dall’alabastro sul capo di Gesù la preziosa essenza di nardo? Quale intima profonda umanità è nella risposta del Cristo ai discepoli che lamentano l’inutile sperpero! Vi è nelle accorate parole, presaghe della imminente fatale separazione, tutta l'avidità del vivere e la gioia di sentire ancora la vita spirargli sul viso il suo molle alito d’oriente, mentre i miti occhi pensosi si accendono del tripudio di luce folgorante d’oro del cielo primaverile di Palestina, «lasciatela, perchè le date noia? buona opera ha fatto verso di me. Ovunque sarà annunziato questo evangelo in tutto il mondo, di quel che essa fece sarà favellato in ricordanza di lei » (2).
Alla concezione di Dio, quale la troviamo negli evangeli, il male è un principio, non solo estraneo, ma antitetico. Esso è la negazione di Dio Stesso, epperò non può entrare tra i modi di operare della divinità provvidente, poiché questa non può essere che amore e bontà verso le creature. Ma nelle religioni positive cristiane — sopra tutto in quella cattolica, che ha veduto rigermogliare sul suo vasto organismo dottrinario e politico tutto l’immortale etnicismo del paganesimo latino (3) — il concetto del Dio provvidente è oggi lontano dal carattere che ha nello evangelo. La semplice idea primitiva enunciata da questo di Dio e dalla sua provvidenza si è venuta offuscando ed alterando, con appropriazione di attributi che sono il contrario dell’ado-rabilità.
(1) Harnack, op. citi, Conferenza IV, cap. I e II.
(2) Matteo, XXVI, 10-13.
(3) Remy de Gourmont, Le paganisme éternel in « La culture des idées », Paris, Mercure de France.
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Nelle parole di Gesù l’uomo appare arbitro del suo destino, ed egli può sempre salvarsi quando senta la sua parentela con Dio-Padre e abbia la fede e l'impulso d’amore, che devono essere i motivi della sua condotta morale e le forze liberatrici dalla sua soggezione al male.
Nessun altro elemento, nel pensiero evangelico, appare come valore decisivo della sorte umana. Ma nelle teorie formatesi poi, sui concetti di grazia e di predestinazione, la posizione del destino dell'uomo è sostanzialmente mutata, come è mutato il concetto della provvidenza di Dio.
La grazia divina, secondo Agostino, non è motivata in alcun modo da parte dell’uomo; essa è unicamente il fatto della libertà di Dio. Dio salva l'uomo perché vuole salvarlo, ma non salva tutti gli uomini. Egli sceglie tra essi un certo numero che destina alla salvezza. Questa elezione è da parte di Dio un atto eterno, anteriore alla creazione dell'uomo; cioè a dire che tra gli uomini alcuni sono e altri non sono predestinati alla salvezza. Questa dottrina della elezione e della predestinazione conduce, dunque, da una parte ad annullare la libertà dell'uomo, dall’altra a rappresentare la libertà divina o l’amore divino come una grazia non solamente gratuita, ma arbitraria e limitata ad un certo numero di uomini.
Da tali dottrine risorge il Dio del giudaesimo e della paganità — contraddizione di termini e incomponibile dualismo di bene e di male — ministro di una giustizia che non è più tale perchè manca di eguaglianza, e che si confonde col fato, e diventa la negazione di ogni libertà.
Trasportato questo concetto di Dio dalla vita individuale a quella collettiva e storica esso risente di tutte le contingenze e le relatività, delle limitazioni e delle opposizioni della storia. Alla idea del Dio-Padre universale, di cui il cristianesimo a pena riuscì a fare risplendere qualche rapida luce nei torbidi cieli delle vecchie mitologie, si sovrappone, reduce vittorioso dal troppo breve esilio, il Dio nazionale, il Dio delle patrie e delle singole stirpi, degli orgogli e degli interessi di Stato, il Dio nel cui nome il fratricidio si legittima e si santifica.
Così la guerra, secondo l'insegnamento delle chiese, rientra nei modi di operare di Dio e nell’attuazione delle leggi divine che reggono il mondo, e Dio viene chiamato, ancora oggi, il Dio degli eserciti e delle vittorie e tutti i combattenti lo pregano, con eguale ardore e fiducia, perchè a ciascuno di essi accordi il trionfo, riconoscendo giusta la sua causa! Siamo qui lontani di distanza infinita dalla pura consolatrice idea dei Dio cristiano, al quale ogni principio di male era estraneo come cosa di un mondo del tutto opposto, inesoràbilmente avverso, il mondo di Sàtana.
Questo rapporto di relazione tra un tale concetto della giustizia divina e la guerra mostra la verità dell’osservazione dello Spencer (i) che « la storia dell’Europa medioevale prova, innegabilmente, che le cause che producono una grande recrudescenza di militarismo, ristabiliscono l'unione primitiva del soldato e del sacerdote, a malgrado di un culto che proibisce lo spargimento del sangue — lo ristabiliscono completamente, come se il culto fosse del genere più sanguinario. Solo quando la guerra
(x) Spencer, Principa di Sociologia. Istituzioni ecclesiastiche, cap. X.
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diventa meno cronica, e le influenze civilizzatrici della pace cominciano a prevalere il sacerdote perde il suo carattere semiguerriero».
Considerata così la guerra, come un’attività del Dio provvidente, un male che rientra nel modo di operare della natura di lui, essa diventa qualche cosa di tragicamente indeprecabile, come il fato eschileo, cui è necessità sottomettersi; e l’antico dramma umano, nella sua brutale ferocia, si riaccende, quasi a testimoniare che nessuna potenza dello Spirito abbia la virtù di dominarlo. Così la guerra è accettata e subita dalle miriadi di oscure creature che si offrono in olocausto ad essa, non tanto per amore della patria — che per moltissime di esse è ancora un’idea astratta, pili che una nozione pratica e un'esperienza — ma quanto per un altro sentimento ben più potente nella loro ingenua anima, per questa atavica certezza che esse portano con sé, generata dalla forza di millenarie barbariche superstizioni religiose, dell’esistenza, cioè, di qualche cosa d’ineluttabile cui la vita debba piegarsi come per una fatale dedizione alla morte, di un male innanzi a cui sia vana qualsiasi resistenza, qualsiasi ribellione della volontà e della ragione.
X. I valori essenziali della Religione. Il cristianesimo e la Storia.
« La religione, osserva William James (i), ci dice essenzialmente due cose. Primo che le cose migliori sono le cose eterne, le cose più alte, le cose che pongono l’ultima pietra, per così dire, all’edificio dell’universo e dicono l’ultima parola. « La perfezione è eterna » — questa frase di Carlo Secretan mi sembra esprimer bene la prima affermazione della religione, affermazione che, come è naturale, non può essere affatto verificata scientificamente».
« La seconda affermazione della religione è che noi siamo, fin d’ora, di gran lunga migliori se crediamo alla verità di quella prima affermazione ».
Queste parole ci dicono, meglio di molte altre, ciò che noi dobbiamo intendere per religione, e quale concetto dobbiamo avere della influenza che su di noi esercita la fede nelle verità dalla religione enunciate. Esse ci mostrano anche l'errore logico e la inutilità delle tante discussioni odierne sulla possibilità o meno della conciliazione dello storicismo col cristianesimo, discussioni che così spesso si fermano alla banale superficialità delle cose.
I valori morali del cristianesimo proclamati dall'evangelo appartengono ad un ordine di certezze che trascendono il tempo, che possono dirsi assolute ed eterne, e che, pertanto, sono al di sopra della storia. Questa è il prodotto dei cambiamenti e delle vicissitudini dei fenomeni temporali, delle infinite opposizioni della nostra natura empirica ed egoistica, epperò è l'anormale, l'irrazionale, il male. La religione è la norma, l’assoluto, il valore ideale per eccellenza immanente, il bene. E una conciliazione tra i dati dell'esperienza storica e le certezze dell'ordine ideale è logicamente impossibile.
(i) W. James, The Will lo believe.
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Se Dio viene concepito non come la deificazione del principio operante della natura, nella quale sono l’anormale, il male, non come la ragione sufficiente della realtà sperimentale, ma così come lo ha proclamato l’evangelo, cioè, come la norma costante assoluta delle cose, l’ideale supremo di Bene che sovrasta la natura contingente, la contraddizione di termini dei valori storici con lo spirito del cristianesimo appare in tutta la sua evidenza.
Ninna rispondenza, dunque, tra la guerra considerata come certezza storica e la religione annunziata da Gesù.
Sono valori e posizioni affatto antitetici.
Sotto tale riflesso le verità dell'evangelo ci appaiono più di tutte le altre come una conferma della sentenza dello Spir (i) che la « religione è un’elevazione dello Spirito sulla comune realtà».
Egli è che la religione, e dicendo religione intendiamo parlare di quella per eccellenza, del cristianesimo, non cerca il suo dominio nel cieco meccanicismo della storia, nel quale la legge di necessità è la legge suprema, ma unicamente nell’intimo della coscienza individuale, che vuole creare essa medesima le condizioni della sua libertà. La religione è cosa dell’individuo: penetra ed investe tutta la sua interiorità, e vuol dare, indipendentemente dalla scienza, dalla potenza, da tutte le acquisizioni sociali, una direttiva, una significazione e un pregio alla vita di ogni creatura.
È questa la sua grandezza sovrana. Le vicende della storia possono esserle estranee. Ma essa può modificarle, può dare loro un corso piuttosto che un altro, se gli uomini avranno confusa l’intima sostanza della loro anima alle verità eterne, e avranno creduto di poter modificare la loro individualità uniformando a quelle la loro condotta.
Coloro che si affannano a volere adattare le grandi, diritte linee del cristianesimo alle piccole ambiguità della natura contingente, trascurano i termini essenziali del problema, e dimenticano come «il cristianesimo si mostri, sul terreno della storia, per eccellenza adatto, meglio di tutte le altre religioni, a liberare il problema religioso di ogni addentellato ad una qualsiasi particolarità nazionale » (2). Esso è valore assoluto nel tempo e nello spazio, mentre la storia è la limitazione imposta a queste due nozioni.
I foggiatoti di un cristianesimo nazionalistico e guerriero devono sentire tutto il disagio morale che produce il tentare soltanto di dare al loro spirito una coscienza meno particolaristica più consona a quella che la religione di Gesù si studia di formare.
In verità, è tutta una estetica della storia, e della concezione eroica di questa — sul cui tronco sono nati i germogli delle seduzioni di tutta una civiltà — i cui valori bisogna invertire.
(1) Africano Spir, Moralitât und Religion.
(2) Rudolf Eucken, Problèmes capitaux de la philosophie de la religion au temps présent.
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LA GUERRA NELLE GRANDI PAROLE DI GESÙ 219
Coloro che non sanno rinunziare al culto delle antiche divinità eroiche — le belle divinità pagane del Diritto armato trionfatore della contesa guerresca — accettino la storia, nella quale quelle divinità sono attori magnifici, la storia nella quale la « sublime insania » della guerra è una legge fatale, ma riconoscano, anche, che essi sono, completamente, fuori del cristianesimo.
I termini del dualismo sono insopprimibili: da una parte l’anormale, il relativo della storia e il suo divenire, nel quale sono la guerra e il sorgere e il decadere dei sogni di predominio, tanto legittimi quanto fatali, dall’altra l’assoluto, la norma immutabile, la pura, calma, uguale e serena forza dello Spirito che non conosce che le verità eterne, che vogliono signoreggiare le cieche indomate potenze della natura, il torbido fiume di vita e di dolore.
Paolo Tucci.
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UN EPISODIO ROMANTICO E TRAGICO
DELLA “REPUBBLICA ROMANA”
’ Ufficio delle Tenebre del Giovedì Santo era terminato in un fulgido pomeriggio di aprile del 1847. nella basilica di S. Pietro in Vaticano. Una signorina americana sui trentacinque anni, dagli occhi perdutamente sognatori, ma pronta ad ogni appello del pensiero e dell’azione, e dal volto pieno di simpatia e di domestichezza per gli aspetti più ascosi di ogni animo che col suo s'incontrasse, dopo aver vagato per alcune delle immense cappelle del tempio, quasi a cimentare le sue recenti emozioni
sulle reazioni dell’arte neo-classica, si avviava verso l’ingresso, e si arrestava al punto convenuto quale ritrovo della piccola comitiva a cui apparteneva. La Chiesa intanto lentamente si era vuotata e stava per immergersi nel silenzio, e poiché nessun gruppo si avviava verso l’angolo donde la giovane americana spingeva il suo sguardo, essa si mosse per scandagliare col suo binocolo le ampie navate e ravvisare gli ultimi gruppi che s’involavano per le diverse uscite. Quando sconcertata e con l’imbarazzo sul volto, — per non conoscere abbastanza l’italiano sì da poter sicuramente raggiunger da sola il proprio domicilio, — si accingeva ad uscire, ella fu avvicinata da un giovane signore dal fare assai distinto, che le propose di assisterla nelle sue ricerche: ed essendo queste fallite, l’accompagnò sulla Piazza San Pietro in cerca di una vettura. Ma la disdetta fu completa, essendo di già la piazza deserta e le tenebre essendo già scese sulla città, allora illuminata soltanto in modo incompleto e primitivo. Alla giovane americana non rimase che accettare la cortese esibizione del fortuito cavaliere, di accompagnarla al suo domicilio in Via del Corso. Lungo il tragitto, la conversazione scansò con tatto reciproco qualunque accenno agli avvenimenti politici e religiosi di cui l’atmosfera era satura allora, e non rivelò molto dei rispettivi sentimenti ed idee: ma quando, al portone del palazzo in Via del Corso, le due carte da visita vennero scambiate, esse rivelarono al giovane signore che egli aveva avuto l'onore di essere il cavaliere di Margaret Fuller, la scrittrice e conferenziera americana, ammirazione dei circoli più colti e liberali della sua patria, amica di Emerson, di Channing, e di tutte le personalità
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UN EPISODIO ROMANTICO E TRAGICO DELLA « REPUBBLICA ROMANA »
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più eminenti di Europa: e la giovane americana dovè provare un istintivo fremito, certo represso prima che trasparisse, non proprio di simpatia spontanea, al leggere il nome del Marchese Ossoli appartenente ad una delle più nere famiglie dell’aristocrazia romana, infeudata da secoli al Vaticano. Margaret Fuller, nel visitare pochi mesi prima l’Inghilterra, aveva incontrato a Londra in una visita a Carlyle. YEsule italiano che allora, dopo l’episodio dell' «apertura delle lettere» era divenuto in Londra il tipo rappresentativo della causa italiana, e con lui aveva avuto uno scambio fugace, ma intenso e fecondo, d’idee, di speranze, di piani. Essa non aveva però di certo immaginato, che mentre credeva di allontanarsi da Mazzini e di posporre la sua collaborazione con la sua visita tutta « en touriste » all’ Italia e alla Roma della storia e dell’arte, era invece destinata a divenire proprio in Roma una sua valida cooperatrice. La seduzione dell’Italia, e di Roma in specie, di cui scriveva: Quegli non visse che non vide Roma », le fece provare una crisi profonda, che s’indovina da ciò che scriveva ad Emerson: «... L’istinto che mi attirava qui in Italia non m'ingannava, ed ora mi accorgo di quanto ho perduto nella vita per non esser qui venuta dieci anni prima. Ora la mia vita è destinata al fallimento: tanta energia ho sprecato in astrazioni che sono state l’unico mio retaggio, e su un terreno per cui non ero fatta...! ».
Il Marchese Ossoli non aveva mancato di fare ripetute visite alla attraente e interessante signorina americana, e dalla sua bocca aveva ascoltato senza raccapriccio, anzi con docilità e con simpatia, un vangelo di libertà, di dignità, di umanitarismo, di vita dello spirito, e aveva bevuto a larghi sorsi, senza avvedersene, il filtro del Mazzinianismo, nel medesimo tempo che quello dell’amore. Quando là Fuller gli annunziò la sua intenzione di compiere un viaggio per l’alta Italia prima di stabilirsi in Roma per una dimora più lunga, la doppia trasformazione si era maturata, ed egli, sfidando le ire di tutta la società romana ed un avvenire assai buio, offerse a lei la sua mano. Ma la liberazione del suo spirito non parve completa alla Fuller, che non credè di accettare allora.
Nel novembre del 1848 al ritorno in Roma della Fuller, l’Ossoli tornò ad esserne assiduo visitatore, ed allora essi impresero insieme una partita a doppio gioco, recandosi insieme ambedue ad adunanze e circoli di opposte tendenze, col risultato per lui di penetrare in un nuovo mondo e ricevere il battesimo del liberalismo, e per lei di comprendere viemmeglio e apprezzare sempre più la causa della liberazione d’Italia, e rendersi più adatta alla missione che stava per incomberle. Risultato non meno importante per la loro vita personale fu, che questa comunanza di ricerche, e presto identità di idee e aspirazioni, fu finalmente coronata da un matrimonio che, per non precipitare gli eventi e per non rendere la convivenza nella stessa città estremamente difficile, rimase clandestine. Intanto gli avvenimenti politici volgevano rapidamente verso la crisi. Dalle finestre della sua nuova dimora prospiciente il palazzo Barberini e il Quirinale in cui Pio IX allora dimorava, la Fuller assistette all’assalto dato dal popolo, dopo l'uccisione di Pellegrino Rossi, a quello stesso portone del Quirinale, donde pochi mesi prima ella aveva visto il Papa benedire ad una turba illusa che lo credè capace di attuare le riforme promesse. Il Papa fugge da Roma; è proclamata la repubblica; Mazzini accorre; e la Fuller è tripudiante della sua sorte
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di assistere ad una pagina gloriosa della storia della libertà, pur sentendosi «sospinta da una forza superiore verso sentieri oscuri, spinosi, rotti di quando in quando da visioni di bellezza ». Ecco una di queste visioni: « lersera » — ella scrive in una lettera dell’8 marzo 1849 — • sento suonare il campanello, e quindi odo pronunziare il mio nome da una.voce che mi colpisce: era Mazzini... Egli sembra più divino che mai dopo tutto ciò che ha sofferto. Si trattenne con me due ore, e parlammo, benché di volo, di tutto ciò che c’interessa. Egli spera di venire spesso a vedermi, ma la crisi è tremenda, e tutto cadrà su di lui, giacché se v’è qualcuno che possa salvare l'Italia dai suoi nemici interni ed esterni, egli solo è quel desso... Mia sola angustia è di non poterlo aiutare...: quanto a lui, temo che egli sopravviverà alla sconfitta, seppure può essere che egli venga mai completamente sconfitto: ma certo, vedere l’Italia sanguinante, ancora una volta disfatta, sarà per lui una visione terribile... Sono stata due volte all’Assemblea a sentirlo parlare con la sua voce imponente: egli sembra esausto, e solo sorretto dalla fiamma che arde nel suo spirito ». Intanto l'assedio era cominciato, e l'angustia della Fuller di «non poterlo aiutare» cessò ben presto: il 30 aprile ella riceveva dalla Principessa Trivulzio di Beigioioso, presidentessa della Commissione romana per il soccorso dei feriti, il seguente biglietto di nomina:
« Cara Signorina Futter,
Voi siete nominata " Regolatrice „ dell’Ospedale dei “ Fate-bene-fratelli „. Andatevi alle dodici... e ricevete tutte le signore che offrono la loro assistenza ai malati e comunicate loro le vostre disposizioni, in modo da averne un numerò sufficiente notte e giorno. Che Dio vi aiuti.
Cristina Trivulzio di Beigioioso ».
Da questo giorno comincia uno dei periodi più tragici nella vita della Fuller. Mentre ella assiste notte e giorno le centinaia di feriti affidati alle sue cure, e provvede a raccogliere dalla colonia americana i fondi per il loro soccorso, il Cónte Ossoli si trova sulle mura alla testa di un reggimento, a combattere, e Angiolino, il vezzoso neonato, è lontano, a Rieti, affidato a mani crudelmente venali... Eppure, fra tanto dilaceramento e strazio, ella trova la serenità e la fortezza per curare individualmente i suoi pazienti: all’uno procurando libri, all’altro fiori, ai più notizie dei loro cari, a tutti conforto, speranza, sollievo. E quando le loro ferite sono rimarginate e il vigore ritorna, essa trasforma il palazzo del Quirinale in casa per convalescenti: « In questi magnifici giardini » — ella scrive dal Quirinale il 10 giugno — « essi camminano con me sorretti da grucce e bende, mentre il giardiniere raccoglie per essi dei fiori, e li diverte coi giochi d’acqua del giardino. Ieri ci sedemmo nel padiglione in cui il Papa soleva dare le udienze private, e mentre il sole tramontava glorioso dietro Monte Mario, fra il rombo delle cannonate, noi strappammo un'ora serena a giorni sì pieni di rovina e di dolore, e ascoltammo i racconti degli eroi del giorno, tutti misti di delicatezza, di “ pathos „, di nobiltà. Fu una scena degna di esser descritta dal Boccaccio; solo, lo spirito era affatto differente; piena di nobili speranze virili e di rispetto per la donna ».
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UN EPISODI© ROMANTICO E TRAGICO DELLA « REPUBBLICA ROMANA » 223
« Voi mi scrivete che io ho sorretto questi nobili giovani mietuti nel fiore della vita, questi figli di madre abbattuti e maciullati... » —scriveva ancora al Channing — « Ma sono essi che spesso hanno sostenuto il mio coraggio: uno di loro baciava testé i pezzi di osso che venivano estratti con tanto spasimo dal suo braccio, e se li appendeva al collo per portarli come vere reliquie, e quali testimoni che anch’egli aveva fatto e sofferto qualcosa per la sua patria e per le speranze dell’umanità. Un bel giovane, divenuto storpio per tutta la vita, mi strinse la mano al vedermi piangere sopra i suoi spasimi che non potevo alleviare, e gridò con debole voce: “ Viva l’Italia! „ Un altro povero soldato ferito mi disse: “ Ma pensate soltanto, cara bona donna, che in tutti i giorni di festa potrò indossare la mia uniforme, proprio com’è adesso, così coi buchi fatti dalle palle nell’entrare nelle mie carni „. E quando io non trovavo più le parole per far loro coraggio, essi mi dicevano: “ Dio è buono: Egli sa tutto...I „ .
AH’ Emerson scriveva in quegli stessi giorni: « Per Mazzini io provo un affetto profondo... Egli ha ravvivato la Roma di cui è divenuto capo pochi giorni dopo di esserne divenuto cittadino, e la sostiene nello Sforzo glorioso che, se pur fallirà questa volta, non fallirà in avvenire. La sua terra sarà libera... 0 Roma, patria miai Che il trionfo di ciò che mi è sì caro dovesse accumulare sul tuo capo tanta desolazione!... Mazzini è un grand’uomo! Come intelligenza è un grande statista poeta; come cuore un innamorato; nell'azione è decisivo, e ricco di risorse quanto Cesare. Oh quanto affettuosamente lo amo! Il suo sguardo morbido, radioso, fa risuonare nella mia anima una musica melanconica: esso consacra la mia vita presente, acciò io possa, come una Maddalena, nel momento solenne, spargere sul suo capo tutto l’unguento consacrato. Mazzini! v'è una persona che ti comprende bene! Che ti conobbe bene sia quando eri motivo di terrore, che ora che sei oggetto d’idolatria; una persona che, se la penna non vacillerà fra le sue dita, aiuterà anche i posteri a conoscerti... ».
Ma la difesa di Roma è al termine, e l’Assemblea, non ostante la ferma opposizione di Mazzini che si rifiuta di firmare la capitolazione, decide la resa: la Fuller è chiamata a prender parte nelle trattative. Ella visita Mazzini pochi giorni dopo, nella soffitta dei Modena; ed ecco ciò che ne scrive: « In tre brevi mesi egli è invecchiato: ha passato tutto questo tempo senza dormire e quasi senza mangiare: tutto il succo vitale sembra esaurito in lui, i suoi cechi sono iniettati di sangue, la sua pelle è divenuta colore arancio, i suoi capelli son brizzolati, e di carne non ne ha pili Eppure mai ha ceduto, mai ha deviato: dolce e calmo, ma con propositi più ardenti che mai. In lui io riverisco l’eroe, e mi riconosco di non esser fatta del suo stampo... Mazzini, Mazzini! avrò io l’onore di far conoscere al Mondo quanto voi siete grande! » Quest’ultima non era un’esclamazione retorica, ma una ferma decisione, che solo la morte potè rendere vana: in tutta la sua dimora in Roma, essa aveva accumulato materiale per scrivere la storia della « Repubblica Romana », di cui essa era stata spettatrice privilegiata ed attrice.
Caduta la « Repubblica Romana », e Mazzini essendosi, specie per le insistenze sue e dei Modena, ricoverato in Svizzera, ella accorre dal suo Angiolino a Rieti; e lo trova ridotto « ad uno scheletro »; immaginare lo schianto del suo cuore! Eppure non dimentica i suoi feriti di Roma: « Non potrei dirvi », — essa scrive, — « quel che ho sofferto in abbandonare i miei feriti... Se avessi potuto vendere i miei capelli
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o cavarmi sangue dalle vene per salvarli ora dalla miseria che li attende sulla soglia dell'ospedale... lo avrei fatto ». Angiolino risorge sotto i baci e le cure della mamma, ed ella prega: « Onnipotente Natura, come mai mi hai condotto nell’intimo del tuo cuore, e reprimi ora ogni sentimento fittizio, ogni orgoglio che mi aveva separato dall’Universo?... Io avevo sempre desiderato un'anima superiore od uguale, ed ecco che questo bambino esaurisce le ricchezze della mia anima... Oh come tutto è pervaso da uno spirito, e come l’anima di ogni esistenza è essa il Santo dei Santi !»
Il 17 maggio dell’anno seguente, dopo una dimora a Firenze e a Milano, la Fuller s'imbarcava coi suoi « due tesori » per far ritorno all'America e scrivere la vagheggiata storia. « Guardatevi dal mare! » aveva detto una zingara all’Ossoli bambino: e la Fuller sotto tetri presentimenti, scriveva alla madre: « In caso di naufragio, io perirò col mio marito e il mio Angiolino ». Una vita sì drammatica ed epica era degna infatti di finire con una tragedia: ma nobile, calma, divina. Il bastimento era giunto a poche centinaia di metri dalla costa americana del Jersey, quando urtò in uno scoglio e s’infranse. Dopo dodici ore di comunione religiosa suprema della Fuller coi suoi due tesori aggrappati ai rottami, faccia a faccia con la morte, un’ondata li spazzò via e solo il corpicciolo di Angiolino depositò pietosamente sulla riva. Le ultime parole di lei riferiteci, furono quelle volte ad un coraggioso marinaio: « ... nella cabina vi è rimasto ciò che ho di piùjprezioso ». Ella alludeva al suo manoscritto sulla storia della Repubblica Romana.
Sia che le onde ci abbiano invidiato quei preziosi documenti, sia che un prete cattolico americano, venutone in possesso, li abbia fatti distruggere, — come la White Mario attesta, sul testimonio di Giuseppe Garibaldi, — certo è che al naufragio sopravvissero solo le « lettere d’amore » della Fuller, e le lettere da lei scritte agli amici e devotamente raccolte, prima e dopo il glorioso episodio della Repubblica Romana.
Ma anche in questi giorni amici americani hanno assicurato lo scrivente, che la memoria di Margaret Fuller-Ossoli è sempre viva nei circoli colti degli Stati Uniti, che la nazione è fiera di aver avuto un sì nobile testimone delle eroiche gesta della Roma del 1849, di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi: che la sua figura sublimata dal dolore e dall’amore è sempre venerata ed amata.
Giovanni Pioli.
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IL “MODERNISMO” CHE NON MUORE
nostro studio sul modernismo ha scosso le acque ferme. Ma taluni ne hanno esagerato le conclusioni. Ristabiliamo, prima di procedere oltre, i limiti esatti e la portata della nostra conclusione, osservando, in linea pregiudiziale, che non noi potevamo metterci in mente di diminuire il valore di quel moto e di impiccolire il merito di quelli che vi ebbero maggior parte. Dei tre uomini che abbiamo più particolarmente nominato uno, il Tyrrell, ci è mancato; ma nessuno
dubita che, vivendo, egli avrebbe continuato ad occuparsi con eguale fervore, nella sua operosa solitudine di Storrington. del problema religioso, così come gli era apparso ed egli lo aveva, sino alla sua morte, studiato e discusso; gli altri due, Loisy e Murri, continuano instancabilmente il loro lavoro: di critica religiosa, l’uno, di propaganda religiosa nella democrazia, l’altro; Chi riconosce d’aver sbagliato strada, la muta; continuando, essi riconoscono che la strada per la quale sono non era sbagliata.
Ma questo non toglie che una illusione ed un errore di fatto, nella loro propaganda ed in quella di-molti altri non Ci sia stato; e quell'errore e quell’illusione costituirono sostanzialmente il modernismo così come molti lo intesero, quel modernismo che è, indubbiamente, finito, sotto le scomuniche di Pio X; e che. essendo finito, non può insieme vivere. Bisognava stendere l’atto di morte, stabilendo bene le generalità del defunto; ed è quello che abbiamo fatto.
L’errore, dicevamo, fu di credere che nella Chiesa-istituzione e dottrina e gerarchia, così come essa è oggi, fosse possibile una evoluzione normale interiore, per la quale essa si adattasse alle esigenze fondamentali della cultura e della vita contemporanea; che nel suo governo delle anime ci fosse posto per la sovranità della coscienza, quale la intendeva il Tyrrell, nella sua teologia per la critica, nella sua azione sociale per la democrazia. La fiducia nell’accordo, che era alla base del triplice tentativo, fu una illusione. Il conflitto nacque, e non poteva non nascere, per il fatto che i maggiori rappresentanti del modernismo, posti dinanzi all’ostilità violenta ed irreducibile delle autorità ecclesiastiche verso la coscienza, la critica e la democrazia, non mollarono, non cercarono fuori di queste un criterio indiretto o personale di concilia-
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zione, non sottilizzarono; ma continuarono diritti per la loro via, subendo e accettando la condanna che li metteva fuori della Chiesa gerarchica ed ufficiale. Il significato e il valore storico del tentativo, in quanto era tentativo di rinnovare dall’interno la Chiesa senza spezzarne la compagine esteriore, e cioè d’accordo con l’autorità, sta tutto in questa crisi. Le piccole soluzioni intermedie, le conciliazioni, gli accomodamenti sono cronaca di individui, non storia di un momento dialettico nella vita della Chiesa. Come dopo il 1848-49 il neo-guelfismo era morto, e ben morto, benché continuassero ad esserci dei neo-guelfi per molto tempo ancora, e V. Gioberti ne stese l’atto di morte nel Rinnovamento, così fra il 1907 e il 1910 il modernismo cattolico è morto, e ben morto; e giova prenderne nota, per andare innanzi.
Allora, all’idea d’ottenere la libertà politica e ricostituire l’unità italiana auspice il papato, sopravvisse, e vinse, il moto liberale che tendeva a fare quell’unità senza e contro il papato politico, ma non contro il cattolicismo; così, oggi, al tentativo di introdurre nella Chiesa la fondamentale autonomia della coscienza e della intelligenza religiosa d’accordo col papato, con i teologi e con i vescovi, sopravvive, e vincerà, lo sforzo tendente ad imporre alla coscienza religiosa cattolica il rispetto delle esigenze della vita religiosa. Checché ne pensino e comunque si conducano le autorità ecclesiastiche; contro di esse, non contro il cattolicismo.
Io ho notato già con accuratezza, e non sarà Sfuggito al lettore, un carattere essenziale del modernismo autentico; la condotta dei principali modernisti dinanzi alle condanne di Roma. Essi non smentirono sé stessi ed il principio che rappresentavano; ma non si posero, di loro iniziativa, contro l’autorità, si adattarono a tutte le rinunzie e al silenzio, solo che non si chiedesse loro un atto positivo contro quel che ritenevano vero e giusto; non presero atteggiamento di eretici e di scismatici; non si posero cioè mai, nè prima nè dopo la condanna, nè con le loro affermazioni teoriche nè con la loro condotta pratica, contro il cattolicismo e contro la stessa autorità, in quanto essa ha e conserva un titolo legittimo ad agire nel nome ed in rappresentanza della comunità dei fedeli. Il Loisy è venuto più tardi a delle conclusioni radicali sulla Chiesa e sulla teologia; ma anche con ciò egli non ha preteso di uscire dal suo punto di vista di critico; nè crediamo sia venuta meno la sua simpatia per l’immanente tentativo della coscienza religiosa cattolica di ristabilir l’equilibrio; rotto da tempo, con le sue espressioni dottrinali e forme istituzionali.
In questo tentativo sta il modernismo, quello che non può morire, che è cominciato da secoli, anzi al principio stesso della Chiesa, con la lotta fra paolinismo e giudaizzanti, e che è là storia stessa interiore, dialettica, della vita della Chiesa; a esso appartiene, con ben altro valore e significato da quello che abbiamo veduto nel nostro articolo precedente, l’iniziativa e l’opera dei principali modernisti; la quale, in quanto esprime un momento caratteristico di questo perenne processo di adattamento della realtà allo spirito religioso, momento che è ancora ben lungi dall’avere avuto il suo epilogo, continua necessariamente, in essi o in altri; e può anzi e deve essere ripreso con più consapevole programma e più organica solidarietà di sforzi.
Ed ora ci apparisce meglio la verità di quello che abbiamo detto. L’errore del modernismo morto, la sua illusione, fu nel fare dell’elemento Chiesa, istituzionale e
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gerarchica, la norma e il contenente; dello spirito religioso l’energia assoggettata alla norma, misurata e contenuta da quello; nell’avere insomma ingenuamente pensato che ci fosse un tale istituto storico, perenne e fondamentale nei suoi elementi costitutivi, il quale potesse, senza alcun suo rivolgimento e sovvertimento interiore, far proprie le nuove esigenze dello spirito religioso: coscienza, critica, democrazia. Il modernismo che non muore sta nell’aver invertito' il rapporto, nel-l’aver fatto della coscienza religiosa la dominatrice vera delle forme istituzionali e gerarchiche, considerate oramai tutte e solo come strumenti e mezzi esteriori riformabili e rinnovabili.
Il punto fondamentale del conflitto fra ortodossia e modernismo sta tutto qui, in questo imporsi della Chiesa alla coscienza, o della coscienza alla Chiesa; della storia fatta, fissata, definita alla creazione storica assidua; del papa, in nome di un Dio esterno e delegante, al Dio interno, non delegabile, che è nello spirito e nella coscienza religiosa. Il modernismo del quale abbiamo pianto la morte precoce è morto, non perchè era modernismo, ma perchè era ancora ortodossia; contro la sua ortodossia diminuita e vacillante, precaria, ha avuto ragione l’ortodossia tutta d’un pezzo del parroco veneziano; in altre parole, non è morto il modernismo, ma l’illusione ortodossa di taluni modernisti. E il loro non fu un errore nel senso volgare della parola, uno sbaglio che quei bravi signori potevano anche risparmiarsi, o che si può immaginare sarebbe stato risparmiato ad altri, i quali avessero occupato il posto loro. Fu un errore che doveva essere; fu una crisi interna della Stessa ortodossia, la quale doveva così, contraddicendosi interiormente e dilacerandosi brano a brano, giungere alla suprema delle sue negazioni ed al supremo dei suoi innovamenti, nell'inversione definitiva dei rapporti fra coscienza e autorità esteriore (1).
Come l’Italia non si sarebbe fatta se, attraverso il ’48 neo-guelfo, non fosse stata aperta la via al '49 ghibellino e repubblicano; e se da quella crisi storica non fosse sorta la sintesi di guelfismo e mazzinianismo nel cattolicismo liberale, nel conservatorismo rivoluzionario, nella monarchia laica di Camillo di Cavour e della destra; e come quindi il neo-guelfismo, errore ed illusione delle quali ora possiamo misurare la tragicomica ampiezza, fu tuttavia un momento essenziale ed imprescindibile nella costituzione dell’unità italiana, così il modernismo, quando si potrà vederlo sotto altra luce (trattandosi qui di un moto enormemente più vasto e profondo di quello dal quale uscì l'unità italiana) qutst’ultima e desolata forma di lealtà ecclesiastica, questa rivoluzione che si era sperato di fare con molti proprio pontifici, apparirà alla sua volta come un momento essenziale nel superamento definitivo dell’ortodossia: di questa vecchia ortodossia ecclesiastica e papale, che starà alla nuova come il vecchio diritto canonico del Piemonte sabaudo sta alla quasi libertà religiosa dell’Italia unificata.
(1) A questa coscienza il modernismo era giunto nel suo ultimo periodo, special-mente col Tyrrell e con taluni degli scrittori modernisti di Nova et Velerà; e chi farà più tardi la storia del modernismo dovrà notarlo. Ma furono come dei battelli di salvataggio verso le rive dello spirito; la nave s’era sfasciata.
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Nel modernismo, adunque, il moto di liberazione e di rinnovazione religiosa si è definitivamente liberato dagli ultimi pregiudizi di lealismo ortodòsso; ha definitivamente superato e idealmente invertito la vecchia ortodossia, per la quale un papa era sopra la Chiesa, e un sillabo sopra la critica e un partito clericale sopra la coscienza civile e sociale dei credenti, ha aperto la via agli ulteriori sviluppi: Idealmente e storicamente, esso costituisce una conquista definitiva, sulla quale non ci sarà bisogno di tornare.
Ed appunto per questa sua efficacia ideale, per questo suo enorme valore di esperimento iniziale dell'ortodossia, esso non è passato invano, come passano le illusioni vuote, quelle che sono, ci si permetta la frase, di alcuni uomini, non della storia stessa, anche nell’ambito dei risultati compiutamente avvenuti e constata-bili. Oggi, a dieci soli anni di distanza dalla democrazia cristiana di R. Murri, la coscienza civile dei cattolici italiani, i rapporti di questa con il papato e con la nazione sono enormemente diversi da quel che erano nel. 1898, da quel che sarebbero ancora stati senza quel moto: Benedetto XV ha, sotto questo aspetto, annullato Pio X.
Ma se quello che abbiamo detto è vero, una osservazione può parer legittima, che fu fatta già, credo, da G. Gentile al P. Semeria: il modernismo, incidente nuovo, non ha valore ideale, perchè il suo momento essenziale va fatto risalire molto addietro; p. es. a Giordano Bruno od almeno a Hegel; dopo di allora, dal punto di vista ideale, non si tratta che di ripetizioni. L’obiezione varrebbe se la storia dello spirito e della vita religiosa potesse essere inclusa tutta nella storia delle filosofie recenti e del razionalismo. Il valore del modernismo, in quanto esso viene dopo il razionalismo, sta per metà in questo: nell’essere stato, contro lo stesso razionalismo, una rinnovata affermazione delle esigenze dello spirito religioso; nel non essersi presentato come il superamento del cattolicismo, ma anzi come una intima esigenza degli elementi religiosi vivi e verdi nella coscienza cattolica, verso una nuova sistemazione del loro mondo esteriore; e nell’aver ricondotto tutto quello che prima pareva definitivo e normativo nel cattolicismo ad esteriorità ed espressione e creazione passiva. Esso non è negazione di quel che è cattolico e quindi tradizione religiosa e credenza e rito, in nome di quel che è razionale; i diritti imprescrittibili della coscienza religiosa, del fare (non del Jallo)'religioso, sono affermati in una con il diritto di sovranità di questa coscienza su tutte le sue manifestazioni e forme storiche esteriori e concrete. Un tempo si diceva che i più violenti anticlericali andavano cercati fra gli ex; oggi una tale affermazione sarebbe un luogo comune vuoto di senso. Il modernista che fu cattolico rimane non solo religioso, ma cattolico, in quanto egli rivendica la religiosità cattolica viva di oggi contro le forme morte della religiosità cattolica di ieri; in quanto tende, con un lavoro di revisione critica e di pratica autonomia, ad aggiornare il passato, non a porre una barriera insormontabile, a creare un antagonismo fra esso e l’avvenire.
Il problema di Tyrrell era: ricreare il cattolicismo, muovendo dalla autonomia della coscienza religiosa; il problema di Loisy: portare la fede cattolica oltre tutte le possibili negazioni e demolizioni della critica, rifarle, oltre queste, una base che non pericoli; il problema di R. Murri: vivere religiosamente la democrazia, inverate
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nella nazione democratica lo spirito e le tradizioni vive del cattolicismo italiano. Problemi, dunque, di revisione e di conservazione; non di anticattolicismo, ma di rinascita — per quanto e come è praticamente possibile — cattolica. Quegli uomini, progredendo, hanno finito col trovarsi soli; soli o, talora, male intesi dai pochi rimasti vicino. Perché il loro cattolicismo li divideva egualmente dagli ortodossi di dentro e dagli eterodossi di fuori, ortodossi di altre fedi e di altre intolleranze, di altri luoghi comuni e di altre Chiesuole; ed in ciò apparisce che essi sono stati davvero, non degli incidenti, ma un esperimento, compiuto sulle loro carni vive e doloranti nei gabinetti dello spirito religioso.
Questo modernismo, a ogni modo, se nella presente generazione di cattolici, non ha avuto seguaci, non può morire; esso continua oggi nell'ombra, per una via sotterranea, per lo stesso fatto del permanére storico del cattolicismo, e in esso, di una coscienza religiosa che cerca sé stessa, cioè la sua autonomia; e ritornerà alla luce, più vigoróso, quando i tempi saranno maturi, come chiara ed esplicita affermazione — senza più errori ed equivoci possibili — della sovranità della coscienza religiosa nelle sue forme storiche; le quali torneranno ad essere non sdegnosamente negate, ma piamente rivedute, esaminate e provate per vedere, al saggio della vita, che cosa di esse è vivo e che cosa è morto. E sarebbe oggi immaturo anticipare i risultati di questa esperienza, che è ancora da fare; per quanto ehi l'ha fatta in sè, avrebbe non inutili cose da diré. Ma dirle, a chi?
Rimane adunque nel nostro pensiero il modernismo come un fatto di natura intrinsecamente cattolica, come un momento nella storia del cattolicismo? — A questa domanda abbiamo già implicitamente risposto. Finché i modernisti partivano dalla presunzione e dalla speranza di un tacito accordo fra la Chiesa « ufficiale » e le esigenze delle quali essi si facevano interpreti, essi erano nella Chiesa e il loro modernismo anche; fino a quando non furono negati, espulsi, annullati come valore ecclesiastico. Ma quando, liberato dall'illusione fugace, posto nell’alternativa di esser sè stesso o di esser la Chiesa, esso vide, non l'incompatibilità dei due termini, ma la falsa posizione di un principio che voleva essere insieme ricreazione dei valori storici religiosi e docilità alle forme morte, norma e soggetto alla norma; quando il modernismo, in quanto posizione storica di cattolici dinanzi al cattolicismo, fu infine creato, come sovranità vera ed originaria ed inappellabile della coscienza re-, ligiosa nella Chiesa, allora e per ciò stèsso la Chiesa cattolica romana cessava di esser per esso la Chiesa, istituzione sovrana ed autorità decisiva, e diventava semplice-mente una Chiesa, una delle molte forme positive di religione e di cristianesimo, un momento ed un ramo della storia di questo, un istituto soggetto come tutti gli altri alla legge delle variazioni e delle formazioni storiche, della relatività e della attualità; anche se esso, nella storia del cristianesimo, era stato e continuava ad essere il momento centrale, l’istituto sul quale più è necessario agire per gli ulteriori sviluppi dèlio spirito e della civiltà cristiana.
Da quel momento, quindi, ci può essere un modernismo che ha avuto origine nel cattolicismo, che si applica in particolar modo alla rinnovazione del cattolicismo; ci può essere un modernismo di cattolici, come ce ne è uno di protestanti, di ebrei, di unitarii, ma non ci può essere un modernismo cattolico, nel senso ufficiale e cor-
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rente di questa seconda parola. Perchè la coscienza religiosa che è giunta allo stadio del modernismo si rispecchia e si indaga nelle forme storiche note della religiosità precedente, ma riunisce insieme in sè ed attua l’intima vis creatrice delle Chiese; distingue sè da esse come il linguaggio interiore dalla parola esterna scritta o scolpita, come l’artefice dall'opera sua, come l'idea dalle incarnazioni varie dell’idea; e si pone come giudice comparante e discriminante e costruente.
Il modernismo è anzi, esso Stesso, il nuovo cattolicismo, il cattolicismo di domani; perchè solo e primo, attraverso la molteplicità delle forme esteriori, delle istituzioni storiche, dei momenti di vita religiosa fatti realtà e passato, giunge all'unità dello spirito religioso, immanente creatore, e ricongiunge in sè dall’interno tutte le membra sparse della società religiosa e le valuta e le gradua, secondo l’importanza che esse ebbero, apparendo ciascuna ad un definito momento dello sviluppo religioso, nella genesi storica della religione una e perenne dell'umanità.
E da ciò apparisce, ora, quale sia il precipuo compito storico del modernismo. Questo avviene, nella storia, in un momento in cui in essa le forze nuove di creazione sono in conflitto sempre più grave con le vecchie forme religiose del passato, dentro le quali la religiosità si trova come compressa e soffocata, e incapace quindi di ogni intimo impulso di iniziativa e di costruzione; quando la vita umana intellettuale e morale sembra oramai vuotarsi di ogni religiosità viva e sentita, nel laicismo dal-l'una parte, nell’ortodossia cieca dall’altra; o se in taluni paesi — come ad es. nel mondo parlante inglese — focolari e istituti di libera religiosità cristiana permangono, essi sembrano destinati a portare con sè, nella premessa del loro non conformismo, un intimo demone di individualismo religioso, di dissociazione e di guerra spirituale. Nel momento più acuto di questo dissidio, dentro l’istituto ecclesiastico più tenace del passato e più potente d’armi per difenderlo accanitamente, il modernismo nasce come esigenza nuovamente sentita di superazione del dissidio, di sintesi e di cattolicità. Ed esso si adopera, dall'ima parte a districare la religione vera e lo spirito religioso dai vecchi ceppi fradici delle ortodossie, dall’altra a districare dalle nuove forme di pensiero e di iniziativa, affettanti una dommatica laicità ed un dispregio cieco per il passato, l'essenziale loro valore religioso, come di atti e fatti di una coscienza che si cerca e cerca in sè, e vuol rispecchiare nel suo mondo i valori supremi ed assoluti.
Primo suo ufficio era di restituire in qualche modo la coscienza religiosa a sè medesima, ridirle la formidabile parola: di fronte a ogni cosa concreta, finita, esteriore, di fronte ad ogni tua creazione o manifestazione passata, tu sei il tuo Dio a te, e non puoi abdicare a questa tua sovranità nelle mani di altri, e non puoi schermirti dall’essere te stessa e dal farti volontà buona, con nessuna lettera di precetti e di regole (i); ed a questo momento e compito è legato in modo indissolubile il nome di Giorgio Tyrrell.
In secondo luogo, conveniva affermare poderosamente, con animo scevro da
(i) Si veggano nel numero di febbraio della Riforma italiana,' alcune pagine inedite di Tyrrell mirabilmente perspicue-
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ogni preoccupazione dommatica, le esigenze della critica; il diritto della ragione, non a sostituirsi alla fede, ma ad esaminare e vagliare ogni concreta posizione, ogni documento, ogni formula della fede; e di questa esigenza nobile documento è l'opera di Alfredo Loisy.
Infine, era necessario ridar valore e contenuto essenzialmente religioso a quel-l’altro aspetto dello spirito cercante sè stesso e la sua autonomia che apparisce specialmente nelle dottrine politiche contemporanee e nelle correnti civili e sociali, nella democrazia, intesa nel suo più largo e comprensivo significato; ed a questa esigenza rispose inizialmente la democrazia cristiana dei diversi paesi: la quale dalla sua logica, dove essa fu seguita, fu condotta a rinunziare ad un avvicinamento e ad una giustapposizione di democrazia e di cristianesimo, come di due cose diverse e distinte, la quale negava il problema stesso che si proponeva di risolvere, ma a presentare i valori essenziali della democrazia come valori religiosi.
Così si integra e si rivela, come necessità di una nuova sintesi spirituale, come ricerca della autonomia e della sovranità dello spirito religioso, il modernismo, nella suà vera natura e nel suo formidabile compito.
E vediamo ora brevemente — poiché anche questo ci eravamo proposti — che cosa ci sarebbe da fare o potrebbe almeno esser tentato per ridar concretezza di iniziative e di istituti a un movimento che sembra essersi dispérso e nascosto nelle oscure profondità della coscienza contemporanea.
Stabiliamo prima un punto: il modernismo deve essere còsa italiana e romana; fuori di qui, esso avrebbe sempre carattere di particolarismo ed effetti di atomizzazione della coscienza religiosa; qui esso trova una tradizione storica, una disciplina spirituale, una contraddizione che lo ponga, ad ogni momento ed in ogni suo sviluppo, come esigenza di sintesi e di cattolicità. L’unità delle Chiese cristiane è e rimarrà un sogno, limitato ad alcuni paesi e sterile, sinché essa sarà cercata lasciando fuori il cattolicismo. E il cattolicismo rimarrà fuori sinché il modernismo non l’abbia pervaso e permeato. La grande battaglia per l’unità religiosa va combattuta in Roma, contro la romanità papale, per una nuova romanità. Ma insieme esso deve essere internazionale; collaborazione viva e feconda di spiriti di varie nazioni e confessioni religiose, pratico ed attuoso superamento di dissidii, ricerca disinteressata di nuove forme religiose, revisione dell’enorme patrimonio spirituale giacente nella vecchia Chiesa e in particolare nel cattolicismo.
In Italia, ma con la collaborazione di non italiani, un risorto movimento modernista ha due vie aperte dinanzi a sè: l’una, di pratica ricostituzione della vita religiosa collettiva, in associazioni rituali che volessero essere, con fede sincera ed ardente, esperienze vissute di un ritorno alle origini, nella purezza ristabilita dei simboli tradizionali; via difficile, lunga, costosa, esposta alle pili vivaci offese della Chiesa dominante, e nella quale troppo pochi, oggi, amerebbero di mettersi.
L’altra, la via di un lavoro di studio e di una propaganda di cultura. I modernisti dei vari paesi potrebbero raccogliersi in una associazione internazionale di comitati nazionali e di singoli corrispondenti; associazione che avesse lo scopo di unire gli animi e gli sforzi, di distribuire il lavoro di studio, di entrare in rapporti con altri istituti ed associazioni religiose favorevoli al movimento, di raccogliere
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ed impiegare i mezzi di propaganda. Per l’Italia, dovrebbe costituirsi, accanto al comitato nazionale, un istituto editoriale, possibilmente in forma cooperativa, che mirasse a mettere insieme, in breve giro di anni, una buona e organica biblioteca di studi religiosi; traducendo da altre lingue lavori fondamentali, dei quali noi manchiamo quasi intieramente, di storia delle religioni, di filosofia della religione e di critica biblica, incoraggiando il lavoro di studiosi italiani e cercando specialmente di mettere in commercio brevi manuali atti ad esser diffusi fra i giovani e ad entrare nelle scuole medie. Noi crediamo che, con una iniziativa abile e ben fornita di mezzi, con un centinaio di volumi pubblicati, buoni e a buon mercato, con due o tre periodici adatti alle varie categorie di lettori, bene coordinati nell’opera loro, con una buona biblioteca circolante per gli studiosi di provincia, enormi risultati potrebbero essere conseguiti in tempo relativamente breve; poiché un intimo senso di inquietudine religiosa incomincia già a manifestarsi nelle classi colte, e sarà certamente promosso dalla guerra. E dopo questa, il momento in Cui lo spirito dei paesi in guerra tornerà, profondamente turbato e sconvolto da questa immane tragedia, spinto ad apprezzare assai più che non abbia fatto nella lunga vigilia di essa i valori morali e le esigenze e i problemi dell’unità spirituale, al lavoro normale dei tempi di pace, sarà forse occasione magnifica per chi voglia incominciare a ricostruire nel campo religioso;'ricostruire, in particolar modo, e da principio, offrendo largo e buono alimento di letture e di studi a quella inquietudine religiosa. E converrebbe prepararsi sin da ora a cogliere quell'opportunità, che sarà breve; perchè se non contraddetti efficacemente da principio, gli impulsi alla dimenticanza e alla vita facile e all’avidità di beni e di piaceri ripiglieranno il sopravvento e sarà peggio di prima.
Ma c’è. chi raccolga l’invito? o non ci saranno solo modernisti vecchi e nuovi disposti a chiudersi ancora nel piccolo e personale punto di vista ed a cercare anche in questo invito sincero e commosso la parola dello scandalo?
Avanti, i vivi! Iixe EG0-
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□ ECHI DI NATALE
IN QUESTA PASQUA
DI SANGUE □ o □
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VLTIONE DI NATALE
I-FRAMMENTOALLE NOBILI DAME DELLA CROCE ROSSA
Scendeva a ricercar fra stella e stella l’umile terra il mite Nazareno, che all’universo insegnò Dio che è buono dalla piccola terra. Il fior del sangue gli ornava ancor, perennemente vivo, i piedi e il cuore, ed ambedue le mani stendeva a croce con le piaghe aperte, aperte anche nel cielo, ove un dì ascese con Lui il dolore, ultimo Dio del mondo.
Veniva il Figlio dèli uomo: ogni anno torna a vedére il poverello nido ove vagì la prima notte. Oh, il tremulo suo corpicciuolo fra che dolci mani e su che trito fieno», caldo a un caldo alitar di due fiati; e come presso un mite, sonnìante occhio di bove! Ed ecco, solitarie, a gruppi, a stormi, a nuvoli, svolargli anime intorno, — faville che lambiscano slanciandosi vortici atri di fumo — balzanti
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di mezzo a un implacabile tumulto di rombi e schianti ed urla e squilli d’aspri segnali, da un immane d’armi cozzo e di petti, da un lugubre di sangue colar nero fra sassi, fra calpesta neve, esalate da livide bocche, fuori uscite da sussultanti membra, groppi di spasimi, abbrancati a rupi, a sterpi, accumulati su trincee, riversi, proni su uncinanti ferri;
e nude, tristi volitar nel vuoto infinito, e parer come sperdute; come, dopo il passar della tempesta, rondini spaurite, ed in ciascuna un non so che di croce — come rondini nel_cavo cielo^azzurro — ignare, colme
d’oblio, affondanti in un silenzioso gòrgo. — Gesù sostò sulla sua terra, dove discese a seminar l’amore, nè altro scorse che maligne messi d’odio, ondeggianti a vento di rapina, e occulte in forre, folgoranti in vette, labili sopra l’ali d'ogni vento, erte a cavallo del ¡'acque, sottesso il velo delle blande acque tranquille in agguato con cupa ira di fuoco, strisciar l'insidia ed esultar la Morte. E come in croce: «E consumato! », lentamente scotendo per orror la testa: « Venti secoli! » sospirò; poi tacque, si coprì con le sue mani trafitte il volto, e pianse. — In Lui piangeva Iddio.
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E Gesù errò sui campi della morte.
Nella serenità piena di pace pioveva qualche lacrima divina; via per il trasparente aere cadeva, e parea stella, e si spegnea nel sangue.
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Feriti urlavan nella notte gelida; divincolavansi convulsi. — Uño si sollevò. — Chi gli gemeva a lato? L’anca in ¡schegge spasimando volse. In una pozza rossa uno straniero forte ansimava con la bocca aperta. E la borraccia si staccò a stento, e versò il vino in quelle fauci spente. — A Gesù il cuore mormorò tremando: « Scendeva da Gerusalemme a Gerico... » — Schiuma di rosa a fior ¿’un’onda nera.
Due diceano: Perchè ? — Perchè ? — Noi siamo foglie d’un istess’albero, cui il vento sbatte e stràccia fra loro, ignota forza a noi stessi, branditi da un ignòto
poter che al mondo è il mondo, e che c’illide» rapisce inesoràbile e maciulla;
il tutto siamo, ma in balìa del nulla. — Gesù riudiva l’eco di sua voce: «Che vale incontro a te, anima, il mondo1?...» — iride ch’entro a nuvoli s’accenda.
E due, ghermiti con atto feroce l’uno sull’altro, un poco a mano a mano mossi, rasserenarono le bocche e ammorbidiron l’ira delle braccia. Sognavan forse di sognar nel caro letto di casa, come due fratelli.
— Gesù sentì dall’anima salire : « 0 padre nostro, che nei cieli stai... — alba che su da monti fiorirà.
Ed ecco lievi lucciole vagare pei campi desolati, brevi voci e appelli rapidi volar qua e là. Qualche strido taceva, altri più acri riprendevano. Infine e luci, e pianti, e strida, aliti e voci via vanivano verso una solitudine remota, fra il lontanar d’un gran fragor di ruote.
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D'ampia corsia trepida di silenzio, entro il diffuso biancicor d'un'alba, sul sogliare Gesù ristette. Immoti, pallidi, in pallide fasce ravvolti, giacean, con dilatati occhi aspettanti della battaglia i mutili relitti.
A quando a quando un gemito tremava gemito era, e pareva un vagito.
E le bocche arse chiamavano: « Mamma! » « Mamma mia ! » chiamavano reprèsso; e acuto di laggiù veniva: « Oh, Dio ! », sotto la mano che frugava i membri
laceri. — Dio e mamma! — Era il Natale!
Che cauto andar, per la corsia profonda, d’angelicate umane creature, in veli nivei più di nivee ali, ombranti il balenio mite degli occhi, degli occhi puri, verecondi e pronti! 0 ceree mani, delicatamente come sfiorar vi vide accorte e caste le carni ardenti nella febbre. Cristo! Egli era là, invisibile e presente, donne di pietà. — Pensava al mito, diletto a Lui. del buon seminatore: — Semina, e sassi e rovi e viandanti gli rendon vana la fatica. Pure qualche granello negli aperti solchi cade, alligna e poi mette e rende. — Donne di pietà, nel più oscuro segreto di voi, nel più profondo di voi. Cristo sorrise al fiore della sua parola. Era sua, era Lui. Ei l’avea tratta dal cuore suo, palpitante col sangue suo, la parola che contiene Dio, e seminata per la terra dura.
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Ma in voi, ecco, spuntare Egli si vide, immortale fra tanta morte, buono fra tanta ira, nella sua parola, tallo tallito, or lo vedea, su ignote zolle, in ignote anime nel mondo.
♦ ♦ »
Betlem, Betlem, là sua parvola vita non in te accolta e sul tuo trito fieno rivide Ei più, nè si sentì vagire, fra un vaporar di canti ermi nel cielo, gremito d’astri, come fiamme al vento,
Cristo : nei cuori Ei rinasceva, e cielo eran gl’immensurabili misteri dell’anime, e sul suo vivo presepe cantava ogni pensier: « Sarà a Dio gloria altissima, se in terra, uomini, in pace fra di voi siate e a voi vogliate bene».
* * *
E s’avanzò fra voi, misericordi creature,: — ma voi dir non sapeste come, adorando, vi tremasse il cuore — Cristo, e con gli occhi sollevò le mani benedicendo^ Dalle sue ferite stillar stille di sangue, ed a ciascuna di voi, sopra il candor dei santi veli, vivo sigillo di pietà, d’amore, fu rosseggiando il segno della croce.
Fratello Page, p. G.
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CRONACA BIBLICA
LA GUERRA E LA BIBBIA
Contro l’antico motto latino, da Marte anziché da Giove ogni cosa deve ora aver principio; e quindi anche questa modesta cronaca di studi biblici, il cui campo è pur esso in varia guisa influenzato dalla presente guerra europea.
Primieramente, anche la scienza biblica come quasi ogni altro ramo di cultura ha detrimento dall’essere gran parte degli studiosi a cagione della guerra distolti dalle loro pacifiche fatiche; e dal fatto ch’esse incontrano ostacolo altresì nella difficoltà delle comunicazioni intemazionali, talora eziandio impossibili. Ad esempio, . l’illustre scrittore inglese, sii' W. Ramsay, nella prefazione al suo ultimo libro, — clic in seguito esamineremo, — dice che la guerra non gli ha permesso di colmarvi certe lacune. La stessa cosa, modestamente, possiamo dire anche noi a riguardo di queste note e di quelle prossime dove, tra gli altri difetti, il lettore vorrà scusare la poca freschezza delle notizie, particolarmente circa la letteratura biblica di quelle nazioni con le quali la nostra presente-mente non ha relazioni amichevoli.
In secondo luogo, la guerra ha cagionato l’interruzione degli scavi e degli studi archeologici’nei paesi della Bibbia, segnatamente in Palestina. A Gerusalemme venne chiusa la scuola biblica fondatavi un venticinque anni addietro dai Domenicani francesi; dalla quale ha avuto origine un notevole impulso alla moderna
critica biblica in seno alla Chiesa romana, a malgrado di uomini zelatori della tradizione ad oltranza. Di quella scuola, da cui nacquero alcuni dotti volumi e l’autorevole Revue Biblique (Parigi, Lecoffre), il p. Lagran ge narra, nel detto periodico (1915» PP- 248-261), la storia, non del tutto tranquilla, particolarmente sotto il Santificato di Pio X, e lamenta la fine: il ©verno turco ne ha mutato la casa in caserma.
In terzo luogo, la guerra ha destato in molti studiosi un sentimento che può influire eziandio su l'indirizzo della esegesi biblica, di cui la Germania ha il predominio. Ad esempio, nella Revue d'Apolo-gétique, che si pubblica a Parigi, troviamo detto (1915, p. 327) dal noto esegeta p. Condamin che « fino a nuovo ordine saranno passate sotto silenzio le pubblicazioni bibliche tedesche »: eppure nel volume su Isaia (Le livre d'Isaie, 1905) egli ha seguito ben da vicino la critica tedesca! Se non che nello stesso periodico e fascicolo (pp. 2S1-298) leggiamo sulla critica tedesca* riguardo all’A. Testamento un articolo dell’abate Touzard, ancor egli buon conoscitore della materia, il quale, pure scorgendo in quella e non senza ragione alcuni «punti deboli», ne giudica con notévole serenità.
Dopo avere accennato al progresso della scienza biblica presso i tedeschi protestanti, nonché all’influsso ricevutone da esegeti fuori della Germania, il T. osserva: «anche in tempo di guerra bisogna dire
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con imparzialità ciò che era vero prima dei giorni nefasti e vero sarà eziandio dopo di essi. Non in Inghilterra nè in Francia, uomini stimati competenti nella materia avrebbero speso tempo e fatica a tradurre opere tedesche mediocri; non Inghilterra nè in Francia avrebbero guadagnato un credito quasi senza limiti le grammatiche, i dizionari ed altri lavori tedeschi che non fossero dotati d’una precisione scientifica evidente; i dotti di tante nazioni non avrebbero subito il fascino d’una erudizione falsa e solo appariscente: questa la verità che si deve ammettere senza esitazione ». E B. Croce, parlando appunto della polemica di alcuni contro la cultura tedesca in Italia, dice: • noi italiani, quando per un buon secolo avremo foggiato e praticato una metodicità migliore di quella tedesca — il che non è tra gl'impossibili — non dovremo fare sforzo alcuno per passare in fama e proverbio di simboli e modelli per questa parte, come siamo stati e siamo per altre parti: ma ora lo sforzo stesso onde si vorrebbe d’un tratto cangiare simbolo e bandiera accusa l’inanità del proposito » (La Critica, gennaio 1916, p. 84). E poiché noi non possiamo aspettare un buon secolo a parlare di studi biblici, nei quali forse più che in qualunque ramo della scienza moderna Germania docci, discorreremo di pubblicazioni tedesche senza feticismo, ma anche senza «inani propositi ».
ISPIRAZIONE E CRITICA BIBLICA
Il sac. prof. A. Celimi ha pubblicato un libro nel quale, contro il suo intento, si vede come il conciliare la moderna esegesi scientifica della Bibbia con le opinioni dei teologi romani circa gli effetti della divina ispirazione attribuitale, sia fatica disperata (L’ultima crisi biblica. Monza, Artigianelli, 1914; pp. XX-203 in 8°).
L’A., chiama « ultima crisi biblica » od anche « dedizione al razionalismo • il fatto che, anni sono, alcuni esegeti appartenenti alla Chiesa romana tentarono di promuovere lo studio della Scrittura secondo le norme della scienza moderna. Vero è che qualcun d’essi abbandonò poi la Chiesa romana o anche la religione cristiana; ma, come dice il proverbio, una rondine non fa primavera; ed è cosa molto inesatta il
parlare, come fa il C., genericamente di razionalismo e di « ultima crisi »: la crisi biblica nelle scuole della Chiesa romana c’è tuttavia e ci sarà sempre fino che i teologi non saranno usciti dalla vecchia confusione tra lo studio critico e l’interpretazione religiosa della Bibblia: per lo studio critico c’è bisogno di scienza e di libertà come nell’esegesi di qualsiasi documento antico; per l’interpretazione religiosa, ossia, per vedere e sentire nella Bibbia l’azione e la parola di Dio, indubbiamente ci vuole buona, anzi, pia volontà sorretta dalla fede: fuori di qui, vaniloquio ed equivoci da cui il C., benché parli di elemento umano da distinguere nella Bibbia dall’elemento divino, non si districa.
Circa la questione dell’ispirazione biblica notiamo il volumetto intitolato: « divina ispirazione ■ (Divine Inspiralion. New York, Hodder, 1915; pp. 171, in-8°) di-G. Mains: è un pastore della chiesa Metodista, già noto in America per un paio di libri d’intonazione liberale nel campo degli studi religiosi. Tale intonazione ha pure Spesto suo scritto, inteso a conciliare la ede alla sacra Scrittura con le supposte legittime esigenze della scienza moderna. L’A., cerca, in primo luogo, di stabilire il fatto della divina ispirazióne, o, per meglio dire, rivelazione in generale. Questo fatto, com’egli dice, non è immaginario, ma reale, universale e continuo. La rivelazione divina è un fatto reale benché non sensibile, ossia, non concretato miracolosamente ih parole audibili all’orecchio dell’uomo. Dio ha parlato e parla tuttavia alla coscienza umana; però l’espressione più alta e più degna dell’universale e perenne ispirazione o rivelazione divina ci è data nella Bibbia; «la quale permane e sempre rimarrà come il documento supremo delle più elevate esperienze avute da anime elette che in sè medesime sentirono Dio ». Posta questa definizione, torna facile all’A. la seconda parte del suo tema; che è di persuadere al lettore la possibilità di errori nella Bibbia, quantunque divinamente ispirata; giacché le semplici anime elette di cui la Bibbia ci serba le religiose esperienze sublimi non sapevano nè pretendevano di saperne piu degli altri non pure circa le questioni di scienze naturali e storiche, ma neanche intorno alle teorie teologiche d’indole speculativa. Nel paese di W. James si parla volontieri della religione come « esperienza» nel che può trovarsi verità ed errore.
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TRA LIBRI E RIVISTE
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SAGGI SU L’A. TESTAMENTO
Additiamo perchè sotto un rispetto degne di nota, nonché per la fama dei nomi che recano sul frontespizio, alcune Eiubblicazioni le quali non sono più di resca data.
Hermann Gunkel, professore all’Università di Berlino, ha pubblicato in volume alcune dissertazioni e monografie già èdite in periodici (Reden und Aufsätze. Göttingen, Vanderhoeck, 1913; pp. Vii-192). Il G. è un campione della scuola biblica che in Germania si chiama «religiosostorica » — religionsgeschichtliche Schule — la quale vuole indagare e interpretare la religione di tutta la Bibbia precipuamente giovandosi della storia religiosa di tutto l’antico Oriente, e in particolare di quella babilonese. Infatti il Gunkel ha seguito questo metodo nel suo Commento del Genesi (Die Genesis übersetzt und erklärt. Göttingen, 2» ediz. 1912) e nell’opera intitolata « Creazione e caos nella prima ed ultima età » che è uno studio storico-religioso sulle narrazioni contenute nel capo 1 del Genesi e nel capo 12, dell’Apocalissi (Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit. Göttingen, 1895); e *° 'ia eziandio propugnato in due monografie delle quali una è intesa a mostrare l’influsso di Babilonia su Israele (Israel und Babylonien. Göttingen, 1903), e l’altra il sincretismo religioso del N. Testamento (Zum religione-geschtlichen Verstàndniss des Neuen Testament. Göttingen, 1903). Nella prefazione al volume di che parliamo, il G. protesta contro di quelli i quali opinano che la sua scuola trascuri i resultati della moderna critica letteraria sull’A. Testamento, per curarsi solamente degli elementi somministrati dalla storia delle religioni. Egli dice di tenere nel debito conto gli uni e gli altri dati per lo studio della religione biblica; però afferma che delle moderne conclusioni circa la composizione dei libri dell’A., Testamento non accetta se non quelle fondamentali; giacché la certezza e l’accordo tra gli studiosi svaniscono allorché si toccano le questioni secondarie: la sua scuola quindi vuole proclamare la necessità di attingere lume dalla‘storia comparata delle religioni, ma non si fonda esclusivamente su di ciò; vuole additare l’errore di quelli che si fanno servi della critica documentaria si
stemata minutamente dalla scuola del Graf e del Wellhausen, ma neppure intende di spregiare e rigettare i precipui suoi resultati. Questa nota di piotesta ricorre più volte nel volume che contiene questi saggi. 1) Un esame del contributo recato alla critica biblica da B. Stade, morto da non molto tempo. Le sue opere Erincipali sono: « Storia del popolo di sràele » (1889), la « Teologia biblica dell’A.
Testamento» (1905), e una serie di contributi recati dalla « Rivista per la scienza dell’A. Testamento • da lui fondata e diretta per venticinque anni (Zeilschrift fùr die alttestamentliche Wissenschafl. Gies-sen, Ricker), ora sotto la direzione del prof. Marti dell’ Università di Berna. Il Gunkel rende omaggio all’opera insigne dello Stade come promotore e illustratore della scuola del Wellhausen; tuttavia a lui, come agli altri di tale scuola, rimprovera un’eccessiva fiducia nella dissezione critica dei documenti biblici e una scarsa familiarità e simpatia con i resultati dell’assiriologia ed egittologia, pur tanto giovevoli a ricostrurre la <* teologia bilica ». 2) Una dissertazione circa il metodo che nello studio dell’A. Testamento dovrebbe tenere la moderna scienza; il quale <!• *vrebb’essere organico e mirare, innanzi lutto, per ogni verso, alla ricerca dell’intimo pensiero e sentimento degli agiografi: l'esegeta veramente moderno ha da possedere non pure un largo corredo di cognizioni orientali tecniche, ma altresì una buona dose di genialità, ossia, di talento fantastico e artistico, a divinare e trarre quasi dal nulla le figure spirituali di quegli uomini che nella Bibbia ci lasciarono le tracce immortali della loro anima religiosa. 3) Un articolo sulla letteratura israelitica, della quale sono additate le varie forme e fasi storiche più o meno accertate, e in modo non felicemente organico. 4) Un esame’ della teoria mitologica che nella storia di Sansone scorge il riflesso di un mito solare: egli confuta questa teoria, e invece opina che quel racconto conservi il ricordò leggendario dell’implacabile inimicizia tra i Filistei e i Daniti. 5) Sunto in forma popolare del libro di Rut: la finale del libro (4, 17-22), dove si fa discendere Xsai, padre di David, dalla posterità di Booz, della tribù di Giuda e sposo di Rut straniera del paese di Moab, sarebbe un’aggiunta che non ha nulla a vedere con tutto l’idillico e ingenuo racconto di sapore deliziosamente arcaico
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6) Osservazioni sul Salterio biblico: dal confronto di esso con la letteratura affine dei Babilonesi e degli Egizi si deduce che Israele dovette possedere non pochi salmi anche avanti l'Esilio (sec. vi a. C.); e dal raffronto con i salmi giudaici estracano-nici si congettura non trovarsi nella Bibbia salmi composti al tempo de’ Maccabei (sec. 11 a. C.). Egli distingue due età nei salmi biblici e due caratteri a quelle rispondenti: salmi composti per il culto prima della predicazione dei grandi Profeti, e questi esprimono i sentimenti di tutto il popolo e hanno quindi carattere impersonale e collettivo; salmi composti al tempo e sotto l’influsso della predicazione profetica, e questi, benché destinati al culto, palesano sentimenti più tosto personali e costituiscono la « poesia salmodica spirituale » (geisili che Psalmdich-lung). 7) Un articolo circa l’escatologia, ossia, la speranza e il concetto della futura età messianica nel Salterio: il G. assegna all’escatologia ebraica una data di origine Siù antica di quanto non voglia la scuola elio Stade, però ammette che i salmisti hanno appreso l’escatologia dai Profeti; e poi non concede che si debbano supporre composti dopo l’Esilio tutti quei salmi dove apparisce la speranza messianica. 8 e 9). Raffronti dell’A. Testamento con la letteratura religiosa di altri popoli, e specialmente di alcuni salmi con i cantici di ringraziamento egiziani (Danklieder, trascritti da pietre sepolcrali a Tebe e pubblicati dall'egittologo tedesco Erman nel 1911): il G. riconosce che c’è molta simiglianza tra questi cantici memoriali e certi salmi biblici, ma non afferma che gli autori di questi li abbiano copiati; invece ammette che un tal genere di cantici possa essere stato reso noto agli Ebrei dai Cananei, i quali l’avranno appreso dai Babilonesi, Eresso cui era usitato già nel secondo mil-•nnio a. C. io). Esame della monografia del Jensen su ■ l’epopea di Gilgames nella letteratura mondiale »: il G. non aderisce all’opinione del celebre assiriologo suo connazionale, il quale discredita la sua geniale e profonda interpretazione di quel Soema babilonese volendo scorgerne l’in-usso e le tracce ogni dove e per ogni verso.
11). Una dissertazione sulle «Odi di Salomone », uno scritto apocrifo, come i lettori sanno, tratto dalla versione siriaca, scoperto e pubblicato la prima volta nel 1909 dallo scienziato inglese Rendei Harris. Il G. stima che queste odi siano state comEoste da uno scrittore giudeo-cristiano im-evuto di dottrine gnostiche, nella metà del secolo 11. Rileva in esse la mancanza del sentimento, proprio al vero cristiano, dell’umana debolezza e colpevolezza bisognosa del generoso soccorso e perdono divino: i profeti e Gesù ci dicono ben più e meglio che non queste odi, cui la Chiesa, com’egli osserva, giustamente ha repudiate. Anche in questi saggi, quali che siano i pregi sotto il rispetto propriamente scientifico, è palese la genialità e la capacità letteraria di cui il G. ha dato prova negli altri suoi scritti maggiori. Quanto al metodo storico religioso da lui propugnato, è indubbia la sua utilità; però conviene ricordare spesso il motto antico: duo disunì idem, non est idem.
Nel volumetto con poca precisione intitolato « La cultura dell’antico Israele » (The culture of ancient Israel. Chicago, The Open Court Publishing Co., 1914; pp. 167 con illustrazioni) si leggono, tradotti dal tedesco in inglese, cinque saggi di C. H. Cornili, professore dell’università di Halle. Egli è ben noto rappresentante, in Germania, della scuoia moderatamente liberale; la sua opera principale è una Introduzione ai libri canonici dell'A. Testamento (1905)-. Il i° di questi saggi tocca delle origini d’Israele, da quando compare nella storia come popolo nomade, fino al tempo in che, per opera di David, assurge alla vita di vera e gloriosa nazione. • La mia credenza alla verace realtà storica di Abramo — egli dice — non è stata scossa dalle varie obiezioni che ho ponderatamente esaminate » (p. 9). Nel 20 saggio si parla della grande opera religiosa di Mosè: « in tutte le religioni vi sono state tendenze monoteistiche, ma soltanto nella religione d’Israele il monotesimo diventò una forza dominatrice; e ciò per merito di Mosè • (p. 63). Il 30 e il 40 saggio trattano rispettivamente della pedagogia e della musica presso gli antichi Ebrei, e non hanno particolare importanza. Il 5® saggio ha per titolo « i Salmi e la letteratura umana » (la voce inglese universa!, usata nella traduzione, non rende il significato di quella tedesca, Weltliteratur, coniata dal Goethe ispirandosi allo Herder, per esprimere l'idea di Humanitàt). I Salmi, dice il C., non sono tutti ugualmente elevati, nondimeno nel loro insieme appartengono alla letteratura universalmente e perennemente umana ossia, alla Weltliteratur; perchè « non c’è quasi alcuna disposizione psicologica che
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non trovi in quelli la sua perfetta espressione ». (p. 155). Com’è noto, Calvino disse che il Salterio è « la descrizione anatomica dell’animo umano »; e Lutero osservava che nei Salmi può chiunque e in qual si sia disposizione d’animo sentire l’eco del suo cuore. < L’esprimere la religione in sè con parole universalmente umane, fa che i Salmi appartengano alla Weltliteratur » (p. *62)Rudolf Kittèi» professóre all’università di Lipsia, è uno de’ più benemeriti dello studio scientifico della Bibbia ebraica. Egli è un critico temperato, come ne sono prova la sua « Storia degli Ebrei », e i suoi « Commentari dei Re e delle Cronache ». Con la cooperazione di valenti critici ha curato un’eccellente edizione scolastica del testo ebraico dell’A. Testamento (Biblia Hebraica. Lipsia, Hinrichs, 2» ediz. 1906), già molto in uso anche fuori della Germania. Inoltre, ha promosso e dirige la pubblicazione di una serie di contributi metodici allo studio storico dell’A. Testamento (Beitrage zur Wissenschaft vom Alten Testament. Lipsia, Hinrichs, 1908 ss.,), la quale ora conta circa venti volumi, ed è stata da lui stesso inaugurata con un volume di « studi di archeologia ebraica ». Non immeritato quindi l’omaggio che, volgendo il suo 6o° compleanno, vollero rendere al Kittei alcuni suoi antichi discepoli ed estimatori, componendo in suo onore un volume intitolato: « Studio sull’A. Testamento» (Alttestamentliche Studien. Lipsia, Hinrichs, 1913; pp. IV-264 in-8®,). Per non toccare ora questioni troppo minute, notiamo solamente alcuni dei 14 saggi componenti il detto volume. Il prof. F. Böhl indaga il significato della voce ebraica barà che comunemente si traduce per « creò >»: istituisce un esame accurato dei vari luoghi dell’A. Testamento dov’essa ricorre; e conchiude dicendo che il suo significato non si ristringe all’azione di creare, ma abbraccia altresì qualsivoglia prodigiosa opera di Dio nel corso delle cose create.
Il dr. A. Puukko, finlandese, esamina una questione concernente il Deuteronomio; circa il quale ha pubblicato un pregevole volume (Das Deuteronomium, Lipsia, 1910), dove appunto prometteva (p. VI) di studiare un'altra volta il rapporto tra il profeta Geremia e il contenuto del Deuteronomio, che è l’argomento qui trattato. Com’è noto, il profeta si trovò ad avere relazione con il re Josia, che mediante là « scoperta » e la promulgazione del Deute
ronomio (an. 621 a. C.), iniziò una profonda riforma della società giudaica. Secondo non pochi critici, il Deuteronomio, che segna un grado ulteriore e più umanitario nella legislazione dell’antico Israele, avrebbe avuto origine almeno in parte dalla £ radicazione di Geremia —- non meno di
(osò divinamente ispirato. Il P. esamina tale questione sotto il rispetto storico ed esegetico, confrontando cioè le profezie di Geremia con il Deuteronomio: la conclusione non è ben sicura, giacché la dipendenza di questo da quelle può anche essere invertita. Egli rigetta la sentenza del Cornili, che vuole vedere una sdegnosa riprovazione della legge promulgata da losia là dove Geremia dice: « Come potete dire — noi siamo savi e la legge di Dio è con noi? — ecco, lo stile mendace degli scribi si è adoprato a falsità » (Gerem. 8, 8). Nondimeno crede che Geremia (cap. 7) abbia criticato le idee deuteronomiche circa il culto e la perennità del tempio di Gerusalemme. —- il dr. F. Wilke insorge contro l’opinione quasi comune secondo la quale si allude da Geremia a una invasione di Sciti, in Palestina, col dire: « O casa d’Israele, ecco, io fo venire su di voi, dice Dio, un popolo di lontano, gente possente, gente antica, della quale tu non sai la lingua nè intendi ciò che dice » (Gerem. 5, 15). I. W. crede che ivi si accenni ai Babilonesi.
Sotto la direzione del prof. Karl Marti fu compilato in onore di Julius Wellhausen, che il 17 maggio 1914 compiva 70 anni, un volume di « studi di filologia semitica c di storia delle religioni ■ (Studien zur semi-lichen Philologie und Peligionsgeschichte. Giessen, Tòpelmann, 1914; pp. vn-388 in-8°) contribuiti da dotti di varie nazioni. Il prof. Rahlfs ivi presenta l’elenco compiuto delle pubblicazioni del Wellhausen. Quanto all’A. Testamento, le principali sono: « La composizione dell’Esateuco e dei libri storici dell’A. Testamento » (3® ediz. 1899); « Prolegomeni alla storia d’Israele • (6® ed. 1905); « Storia israelitica e giudaica » (5® ed. 1904). In questi ultimi anni egli è entrato anche nel campo della critica neotestamentaria con una « Introduzione ai tre E rimi vangeli (2® ediz. 1911) e i rispettivi ommentari. Tra gli studiosi di storia e letteratura araba sono celebri alcuni suoi lavori, per esempio quello sui « Resti del paganesimo arabo », e l’altro dal titolo: « Medina prima dell’islamismo ». Non possiamo fermarci sui vari saggi che compon-
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gono il volume offertogli giustamente in onore, chè sono la più parte d’indole filologica. Solamente notiamo che in quelli dove sono trattate questioni relative al-l’A. Testamento (del N. Testamento non vi si parla) non sono seguite sempre le opinioni del celebre maestro; ed è un bell’esempio di libera discussione scientifica sempre accetta agli uomini veramente superiori.
ELLENISMO E N. TESTAMENTO
La ricerca dell’influsso che sulla terminologia, la teologia e i riti del Cristianesimo nascente può avere esercitato l’Ellenismo per via delle dottrine orfiche, del culto agli eroi e del rituale, praticato in tutto il mondo greco-romano, nella celebrazione dei misteri di varia natura specialmente nelle Eleusine, costituisce al presente una delle questioni più discusse dagli studiosi del N. Testamento. « Quei riti fondati sopra arcane dottrine e formole arcane, ai quali il credente non poteva accostarsi che con una speciale preparazione, compiuti o tutti o in parte in segreto e vincolanti al segreto chi vi partecipava; che, conferivano particolari grazie spirituali specialmente in rapporto colla vita d’oltretomba, e parevano mettere in più diretta comunicazione colla divinità, si dissero —- da myéin, tener chiusa la bocca — my-storia; parola che il cristianesimo ereditò e Krpetuò in significazione non dissimile »
. De Marchi, Gli Elioni, p. 127). L’opera più recente e più importante sulle origini e il significato dei misteri che si celebravano ad Eieusi è quella di P. Foucart, professore del « Collège de France • a Parigi, al quale per le varie monografie già pubblicate su quest’argomento è riconosciuta dai dotti una speciale competenza circa lo studio dei misteri eleusini (Les Mystères d’Eleusis. Parigi, Picard, 1914; pp. 508 in-8°). Quali ne’ particolari questi misteri fossero, che significassero e come si succedessero tutte le singole cerimonie misteriose non sappiamo che imperfettamente; anche mutarono disciplina, forme, dottrine, nel corso di più secoli; ma dalle notizie pur lacunose e disparate che l’erudito raccoglie e coordina, esce il disegno e il colore del gran quadro che aveva per centro il Telesterio, ossia, il tempio di Eieusi, non molto lungi da Atene, presso la riva del mare. I « pic
coli » misteri erano celebrati in primavera ad Agre, sobborgo di Atene, sullTllisso; e conferivano il primo grado d’iniziazione dei misti, necessario per salire al grado degli epopti e avere la maravigliosa visione ineffabile nel tempio di Demetra, che era il culmine dei « grandi » misteri celebrati, ogni anno in autunno, con processioni, digiuni, sacrifizi e purificazioni ad Eieusi. Tra quelle cerimonie le più notevoli e più spesso confrontate con i riti cristiani erano le purificazioni o abluzioni corporali, l’omofagia e la mistica consumazione del kykeon. L’omofagia consisteva in ciò che gl'iniziati tagliavano ciascuno per sè un pezzo di carne da un bove vivo e lo trangugiavano, persuasi di conseguire cosi un grado più intimo di unione con la divinità impersonata in Dioniso Zagreo. La mistica bevanda era si essenziale, che la frase « digiunai, bevetti il kykeon • equivaleva al dire d’essere stato iniziato ai misteri eleusini. 11 F. non accetta la sentenza che in tale manducazione c bevanda mistica scorge l’intenzione di un’unione con la sostanza degli Dei» i quali si supponevano presiedere a quelle cerimonie. « L’iniziazione era un fatto notevole e tale da esaltare la fede in Demetra e nelle sue promesse, ma non significava il principio d’una nuova vita » (p. 403). Quanto alle purificazioni, il F. opina che non avessero nè la funzione nè la significazione di realtà spirituali e morali: « la purezza che si voleva era di natura materiale; però è cosa possibile che più tardi i filosofi abbiano voluto vedervi un’immagine o un simbolo della purezza dell’anima ■ (p. 289). Se non che può mettersi in dubbio questa opinione, come pure l’ipotesi, propugnata dal F., la quale trova in Egitto l’origine dei misteri eleusini; nei quali egli, a quanto pare, pur ammettendovi vaghe somiglianze, non vorrebbe si vedessero quei rapporti d’iden-dità con i riti cristiani che alcuni oggi, certo con troppa facilità, vi discoprono; come, ad esempio, il Reitzenstein nel volume dal titolo: «Le religioni elleniche dei misteri ». (Die hellenistischen Mysterienreligionen).
Circa tale questione ricordiamo l’opuscolo di C. Clemen, professore all’Univer-sità di Bonn, intitolato appunto: « L’influsso delle religioni misteriose sul Cristianesimo primitivo » (Der Einfluss der Mysterienreligionen auf das älteste Christentum. Giessen, Töpclmann, 1913; pp. 88 in 8°). Egli ha già dedicato un volume alla questione intorno all'influsso delle religioni
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pagane sul N. Testamento, pubblicato nel 1909 in tedesco (RcligionsgeschischUiche Erklärung des Neuen Testament), e poi, notevolmente ritoccato, in inglese col titolo: « Cristianesimo primitivo e sue fonti non giudaiche ■ (Primitive Christianity and ils non-jewish sources. Edinburg, Clark, 1912). La conclusione generale di tale sua opera è dall’A. stesso indicata, nell’edizione inglese con queste parole: « Se del tutto si lasciano da banda le cose d’indole estoma, le idee neotestamentarie derivato forse da fonti non giudaiche — delle quali nel più dei casi giova ricordare la natura ipotetica — si fermano alla frangia e non toccano l’essenza vitale del Cristianesimo ». Conviene soggiungere che il Ciernen, teologo liberale, nel distinguere la frangia dall’essenza, naturalmente adopera un criterio personale e quindi relativo.
Nell'opuscolo sopra indicato egli compie e anche modifica in alcuni punti la precedente opera; attenendosi generalmente a una via media, ossia, al principio che non s’ha da ricercare un influsso lontano allorché i fatti si possono spiegare per via di quello vicino e intimo, che é l’ambiente giudaico fecondato dalla nuova dottrina cristiana. Così il C. limita assai il preteso influsso ellenistico sui sacramenti cristiani; ma crede che san Paolo, però, abbia solamente parlato di simboli e non di sacra-menti: la significazione sacramentale al rito battesimale e a quello eucaristico sarebbe stata data dalla Chiesa cristiana e molto presto; la quale in ciò avrebbe ubbidito, più che ad altro, alle intime esigenze della coscienza collettiva religiosa alimentate dalla nuova fede e dal culto. Tuttavia il C. concede che alcuni testi dell’epistolario paolino « si possano » interpretare secondo il senso dell’antica Chiesa cristiana, cioè, a sostegno della dottrina sacramentaria. Pur in questo, come in tutti gli altri suoi scritti, il C. ha versato una erudizione copiosa e accurata.
Anche H. Kennedy, professore al « New College • di Edinburgh, ha dedicato uno studio alla questione del rapporto dottrinale tra « san Paolo e le religioni dai misteri » (Si. Paul and thè. Mystery-Religione. Londra, Hodder. 1913; pp. xvm-311 ih-8°). In primo luogo, ragguaglia il lettore intorno ai caratteri religiosi del mondo greco al tempo dell’Apostolo; dei quali addita i fattori precipui nella filosofia stoica, nella dottrina orfica e nei culti orientali. Poi ricerca « gli clementi giudaici affini con le
religioni dai misteri »; per contrastare così a una certa scuola che nello studio del pensiero paolino trascura il fatto fondamentale dell’essere quello sgorgato da una mente familiarizzata con l’A. Testamento e il Giudaismo. Indi parla dei riti eleusini, del culto di Cibcle e Atti, d’Iside e Sera-pide, nonché della letteratura Hermética; e dopo di avere segnalato l’influsso di tali religioni sulla terminologia di Paolo, raffronta la dottrina di lui con le fondamentali concezioni di esse. Poscia esamina i riti battesimali e i banchetti sacramentali; e nel capitolo di conclusione discute e rigetta la teoria che al misticismo paolino dà per origine la sola speranza escatologica. In sostanza, il K. ammette che Paolo deliberatamente, a scopo missionario, si è largamente giovato dei termini e dei simboli religiosi familiari alle popolazioni del mondo greco romano, che voleva condurre alla fede cristiana; ma la magica dottrina pagana dell’effetto spirituale promanante dall’opera operata — ex opere operato — non sarebbe penetrata nella dottrina pao-lina, etica in sommo grado. « Le idee fondamentali delle religioni con misteri appartengono a una sfera diversa da quella dove l’Apostolo abitualmente si trova; e assolutamente manca il punto su cui stabilire una relazione pur tenue tra quelle e la dottrina del Cristo Crocifisso, prominente nell’esperienza e nella teologia di san Paolo» (p. 281).
Sia per la celebrità dell'autore che per l’importanza e l’indole della tesi, il volume sull’origine e il significato cristologico del nome « Signore » dato a Gesù nel N. Testamento e nella letteratura cristiana fino a Ireneo (Kyrioe-Christos. Gòttingen, Van-denhoeck, 1913; pp. xxiv-474, in-8°), opera di W. Bousset, ha dato luogo a discussioni nei periodici teologici stranieri. Il Bousset, professore di teologia all’Univer-sita di Gòttingen, è un autorevole rappresentante della scuola « storico-religiosa •; insieme con il prof. Gunkel cura la pubblicazione di una serie, già cospicua, di monografie composte da noti studiosi, quali <1 ricerche sulla religione e la letteratura dell’A. e del N. Testamento » [For-schungen zur Religión und l.iteratur des Alten und Neuen Testamente. Gòttingen, 1903 ss.): sono noti a tutti gli studiosi il suo lavoro sulla « gnosi » nell’antichità cristiana (Hauptprobleme der Gnosis, 1907) e specialmente il classico volume intitolato: « La religione del Giudaismo nell’età
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del N. Testamento » (Die Religion des Ju-dentums itn neutestamentlichen Zeiialter. Berlino, 2* diz. 1906). Di quel volume importante, non possiamo che dare un rapido cenno senza voler raccomandare la tesi radicale propugnatavi, che fu male accolta anche presso teologi liberalissimi in Germania, in Inghilterra, e in Francia; come, ad esempio, si può vedere in Zeilschrifl fùr Theologie and Kirche (an. 1915). e nel Hibbert Journal (gennaio 1916).
Nella prefazione l’A. osserva che non è ancora giunto il tempo da narrare le origini del Cristianesimo'nel mondo della civiltà Sreco-romana, così tanti essendo gl’in-ussi ancora non bene determinati che su di quello esercitarono le idee e le pratiche religiose pagane. In questo volume, com’è detto anche nel sottotitolo, egli si propose d'indagare « la storia della Cristologia dalle origini del Cristianesimo fino al tempo d’Ireneo » (secolo 11). Una tale ricerca, secondo lui, non può aver principio dall’esame dei vangeli e neppure dagli Atti, giacché questi scritti non ci attestano, in generale, ciò che pensassero di Gesù i suoi primi discepoli, ma piuttosto quello che circa il Cristo incominciarono a credere le prime cinese cristiane. Non ostante la loro riabilitazione almeno parziale tentata o compiuta da critici recenti, tra cui A. Har-nack, il nostro A. si palesa molto scettico circa gli Atti come documento storico. Appunto in contrasto con ciò che dagli Atti sembra lecito di arguire, il B. stabilisce una tesi fondamentale del suo studio, che è questa: le chiese della civiltà ellenistica, e precipuamente quella di Antiochia, hanno foggiato una dottrina cristologica che Soi Paolo apprese, fece sua e divulgò. Tale ottrina nacque con il nome di Kyrios, « Signore », dato a Gesù, per la prima volta, dai fedeli della chiesa antiochena. Vero è che nei vangeli incontrasi più volte il nome di « Signore » dato a Gesù, anche in terza persona (p. e.. Marco 14, 14); ma, secondo il B., si tratta di anacronismi facili sulla penna di coloro i quali scrivevano i racconti evangelici sotto l'influenza della tradizione e della catechesi cristiana, dopo mezzo secolo di pia elaborazione. La quale elaborazione sarebbe stata precipuamente alimentata dal culto: il B. afferma, con altri della sua scuola, che non il culto nasce dalla dottrina, ma la dottrina viene ideata e poi plasmata sotto lo stimolo della pietà esteriorizzata nel culto. Così le chiese ellenistiche, e specialmente quella di Antio
chia, perchè formate da membri già abituati a identificare la religione col culto, non avrebbero potuto accettare la religione di Gesù senza addattarla a un culto, cioè al culto degli eroi e dei semidei. E poiché chiama vasi « Signore » l’eroe popolare divinizzato, così venne dato questo nome anche a Gesù; giacché il nome messianico ebraico di « Unto » (Cristo) non diceva nulla a uomini del mondo greco romano. Così Gesù prese il posto della Dea siria, e di altri dèi o semidei, nella pietà e nel pensiero di molti cittadini di Antiochia, e poi di altre città appartenenti alla civiltà greca. Una sì fatta divinizzazione di Gesù sarebbe nata per un processo psicologico quasi inconscio. Il titolo di « Signore » im-Eurtava l’elevazione delia personalità di esù a un grado sovrumano nell’essere, e la sua esaltazione alla dignità e funzione di Capo della comunità fondata nel suo nome. Il B. parla anche a lungo del cristianesimo di san Paolo e di quello rappresentato nella letteratura giovannea. L’Apostolo non avrebbe derivato dall’A. Testamento, ma bensì dalla filosofia ellenica, il concetto di « Spirito », identificandolo poi con quello di Kyrios-Christos. Ricordiamo che G. Fried-lander, parlando dell’Ellenismo in rapporto al Cristianesimo, ha detto: « Gesù fu ellenizzato e quindi divinizzato ». Ci pare che in questa frase, non certo ortodossa, si possa compendiare la sostanza del volume del Bousset; dove però questa tesi è circondata da un apparato di erudizione co-E¿osissima, e utile anche a chi non voglia ar sue proprie le opinioni che ivi sono vigorosamente propugnate.
Sotto il titolo di « Vangelo efesino », il dr. P. Garden ha pubblicato, intorno al Sarto vangelo, un volume notevole, benè d’indole più tosto popolare (The Ephc-sian Gospel. New York, Putnam, 1915; pp. xi-362 in-8°). Egli designa questo vangelo come «l’opera più importante della scuola di Paolo »; la quale, anche dopo la sua morte, fioriva in Efeso. Circa la questione dell’autore di esso, il G. osserva che l’opinione tradizionale la quale attribuisce il vangelo giovanneo alla penna dell’apostolo Giovanni figlio di Zebedeo, gli pare « tanto improbabile da dover essere lasciata da parte ». Il G. descrive, in primo luogo, l’antica città e civiltà di Efeso; dove la cultura ellenica era commista con quella asiatica. Poi osserva che lo scrittore del quarto vangelo, quanto alle idee letterarie, era figlio del suo proprio tempo e
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ambiente intellettuale; aveva quindi» circa il modo di comporre biografie, un’idea non limitata dal dovere della modesta precisione storica che ci facciamo noi: stimò che il modo migliore di narrare la vita di Gesù fosse quello che meglio gli avrebbe guadagnato più adoratori e seguaci in ¡spirito e verità. Del resto, la dottrina del quarto vangelo, egli dice, è il riflesso dell’esperienza religiosa del sud autore discepolo di San Paolo (sulla «esperienza religiosa » del quale il G. ha pubblicato un libro). Nell’ultimo capitolo, « Il vangelo e il moderno pensiero ■ il G., dice che se i vangeli sinottici valgono meglio del quarto come fonti stòriche, questo, però, è in pili in armonia con il moderno pensiero religioso; il quale antepone lo spirito alla lettera, e ama fondarsi « anziché sopra una vita vissuta nel tempo e nello spazio, in quella celestialmente eterna ».
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NECROLOGICA
In memoria dell’abate francese F. Vi-gouroux si legge un articolo di E. Lévesque in Revue Biblique (1915, pp- 182-216). Il V. nacque a Nant nel ’837 e mori a Parigi nel ’915. «Nelle questioni di esegesi biblica — dice il L. — egli marciava con il grosso dell’esercito, additando le posizioni sicure; talora marciava un po’ troppo lentamente forse, se non che l’avanzare adagio e il non rinculare mai, parevagli la cosa più utile al progresso ». Questo linguaggio ci ricorda che viviamo in tempo di guerra! Quanto alle avanzate e ai progressi senza rinculamenti compiuti o guidati dal Vigouroux, dobbiamo fare molte riserve. Gli toccò, qualche anno prima di morire, d’essere sospettato come modernista; ma ciò segnava il colmo dell’esasperazione reazionaria all’ombra piana dell’enciclica Pa-scendi. Dicesi, però, che il nome del defunto segretario della Pontificia Commissione Biblica romana suoni tuttora come sospetto in certe scuole cattoliche! I.e sue pubblicazioni sono farraginose e superficiali.
A New York morì, nel febbraio ’916, il prof. Joseph Jacobs, nato nel '854 a Sydney nella Nuova Galles del Sud. Égli era una delle personalità più cospicue del Giudaismo contemporaneo liberale. Ebbe gran parte nella compilazione dell'americana < Enciclopedia giudaica », tanto utile anche agli studiosi della Bibbia. Tra i molti suoi libri è particolarmente notevole quello
intitolato Jewish Ideals (1896), un volume di saggi brillanti e originali sulla filosofia e'.storia ebraica. Ne’ suoi Studies in Jewish Statistics (1870) applicò il sistema antropometrico moderno nella ricerca dei caratteri etnici degli Ebrei. xxx.
René Bazin: Pages religieuses. Tours, Mâme et Fils édit., 1915.
L’A., che è un letterato chiarissimo, raccoglie qui sotto la doppia divisa improntata alla sapienza de\V Ecclesiaste (c. III. v. 8) tempus belli et tempus pacis parecchie meditazioni delle quali la forma è viva e smagliante, ma sul cui spirito cristiano vi sarebbe qualche cosa da dire. Come pel Bourget il cristianesimo del Bazin è quello che può dare la Chiesa attraverso alla aggrovigliata speculazione scolastica fermentata dalle cupe visioni medievali. Ma non si potrebbe giurare che sia proprio il cristianesimo del Vangelo, nè che esso rifletta limpido e chiaro il pensiero di Gesù.
Bruno Naldi, Opuscoli e testi scelti di S.
Tomaso d'Aqutno, con note. Bari, La-terza. 1915. Vol. P.
Molto bene descrisse il Mortier (Histoire des Maîtres Généraux de l-Ordre des frères Prêcheurs, tomo 2°, 1263-1323) la rivolta che l’insegnamento assolutamente nuovo di S. Tomaso provocò nel seno delle scuole di filosofia e che condusse alle due note condanne dell'opera tomistica l’una da parte di Stefano Tempier Vescovo di Parigi nel 1276, l’altra poco tempo dopo da parte del domenicano Roberto Kil-wardeby arcivescovo di Cantorbéry, per istigazione dei teologi d’Oxford.
Ora assai utilmente avrebbe potuto il Naldi accostare le tendenze razionalistiche Serialmente a proposito della teorica principio d’individuazione) della filosofia di S. Tomaso alle dottrine dei* migliori teologi del secolo xin che chiesero con orrore la di lui condanna. È collocare meglio il genio indiscutibile di S. Tomaso nell’ambiente in cui apparve, assoluta-
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mente incapace di una vera speculazione scientifica. Questo quanto alla filosofìa che meritereobe ancora oggi d’essere ripresa in esame per spogliarla di quella convenzionale interpetrazione, in che la scuola seppe pietrificarla e che poi venne canonizzata dal Tridentino.
Quanto poi alla sua esegesi biblica e peggio alla erudizione patristica della Somma, il ristampare S. Tomaso anche solo per offrirne degli spunti è un vero spreco di tempo e di fatica. Chi non sa che i suoi Commentari sulla Scrittura hanno quasi nulla di testuale; che egli ha utilizzati (pure in buona fede) dei testi apocrifi come gli scritti del pseudo - Dionigi; che i testi dei S. Padri utilizzati da lui sono tolti quasi sempre da compilazioni di gran lunga posteriori e quindi vi sono mescolati in gran numero passi apocrifi ed interpolazioni; che certi opuscoli (come il De /orina absolulionis) sono pure bizzarrie dialettiche; che infine il gran trattato Contro errores graccorum è tutto nei testi allegati, indubbiamente apocrifi, una so-perchieria di cui la Chiesa Romana abusò, se non a danno delle Chiese d’Oriente che seppero anche unite conservare le loro vedute teologiche specialmente intorno ai Sacramenti, certo a danno dei suoi fedeli cui volle imporre come volute dal Cristo delle formule della procedura romanistica?
Ben venga, adunque, studiato come si conviene, fuori della scuola, S. Tomaso filosofo ma del teologo, e sopratutto, dell’apologista non ne parliamo per carità!
Benetti-Brunelli Valeria, I valori dell'educazione, con prefaz. di B. Varisco, Città di Castello, Lapi ed., 1915.
Come il cristianesimo, quello di Gesù, diretto a liberare gli uomini da ogni schiavitù di assiomi, di postulati, di dogmi per avviarli con le sole fresche, spontanee forze dello spirito verso del bene è una divina pedagogia, così la scienza pedagogica affrancata dalle vecchie fisime spiritualistiche, come ottimamente la intende l’egregia Autrice, è cristianesimo vero e generoso in servizio dei piccoli amati da Gesù.
Vada il libro della Bonetti ai maestri ed alle maestre d’Italia e sia loro d’aiuto a compiere, come devono, all’infuori d’ogni chiuso campo dogmatico e confessionale la loro santissima missione.
* • •
Segnaliamo ai lettori nostri augurandogli estesa diffusione specialmente tra quelli che appartengono alla confessione cattolica un libro che corre ora la Francia suscitandovi immenso entusiasmo. L‘Al-lemagne et les allifs devant la conscience chritienne (edito a Parigi dal Perrin), è una raccolta di scritti dovuti ad uomini di forte fede e di eminente ingegno, i quali, assai meglio che i cattolici italiani sudditi spirituali (ed anche un po’.... temporali) d’una Potenza neutra, hanno saputo vedere nella lotta che il mondo civile combatte contro la barbarie tedesca qualche cosa come una gesta Dei per homines......;
la prefazione è del Baudrillart ed è interessantissima.
Il libro è stato denunziato dai Cardinali di Colonia e di Monaco al Kaiser perchè s’adoperi col suo alleato di Roma a che gli autóri del libro (tutti buoni cattolici, alcuni sacerdoti, uno Vescovo) siano colpiti, come si deve, con buone scomuniche ed il libro venga messo ^Vindice.
G. M. Petazzi S. J., Gesù virente nella Compagnia di Gesù, Milano, Tip. Arcivescovile, 1915.
Il titolo è assai modesto, come si vede, tanto più per essere l’A. un membro della divinizzata Compagnia. L’avevamo letto da un pezzo senza pensare davvero a farne comunque memoria. Ma poiché lo vediamo ricordato da parecchie riviste cattoliche crediamo sia utile ai lettori nostri sapere che razza di panegirico la benemerita Compagnia abbia creduto di scriversi mentre nessuno in Italia ha ancora pensato alla traduzione del sensazionale libro del Pey-Ordeix (Sigismondo Pey-Ordeix, El Padre Mir e Ignacio de Loyola, Madrid 1913, Impronta Libertad, 31) che sulla scorta di importantissimi documenti dimostra come il Lovola non sia stato precisamente quel che afferma la Compagnia.
S. Bridget.
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PRO E CONTRA LA PARTECIPAZIONE DEL PAPA AL CONGRESSO DELLA PACE
(riassunto dei principali scritti apparsi sul
SOGGETTO IN RIVISTE E GIORNALI ITALIANI)
ON. TOMMASO MOSCA
L’on. Tommaso Mosca nel suo articolo: Dell'intangibilità sostanziale e permanente della Legge delle Guarentigie (Nuova Antologia, i° gennaio 1916) intende rispondere, tenendosi a considerazioni stretta-mente giuridiche, all’allocuzione pontificia del 6 deccmbrc 1915, e più esattamente a queste parole di Benedetto XV: «Se consideriamo gli inconvenienti che dal conflitto europeo sono derivati alla Chiesa cattolica ed alla Apostolica Sede, ognun vede quanto gravi essi siano e quanto lesivi della dignità del Sommo Pontefice... Certo non fece difetto a coloro che governano l'Italia la buona intenzione di eliminare gli incovenienti, ma questo stesso dimostra chiaramente che la situazione del Sommo Pontefice dipende dai poteri civili, e che, col mutare degli uomini e delle circostanze, può anch’essa mutarsi ed anche aggravarsi. Nessun uomo sensato potrà affermare che una condizione sì incerta e così sottoposta all’altrui arbitrio sia proprio quella che convenga alla Sede Apostolica ». L’on. Mosca si propone insomma di dimostrare che tale ragionamento pontificio, che è l’unico che si suole addurre per dimostrare l’in-sostenibilità della posizione giuridica costituita alla Santa Sede dalla legge delle Guarentigie, non è che meramente ipotetico ed astratto, e che non avrà mai valore reale. Poiché esso si impernia su di una ipotesi assurda ed irrealizzabile, ad attuar la quale occorrerebbe che il popolo italiano da un canto e la Chiesa cattolica dall’altro rinnegassero la loro intima natura.
Prima di entrare nella trattazione diretta del suo assunto, l’on. Mosca vuole stabiliti due punti, che egli dice essenziali in materia. Il primo è questo: Le guarentigie concesse al Papa in Roma non sono dei
privilegi ad personam, cioè prerogative anormalissime* dovute a considerazioni subbiettive, vale a dire, alla convenienza di circondare di decoro e di prestigio la persona del Pontefice, per essere stato sovrano temporale e perchè gode tuttora di molta autorità presso milioni di uomini in tutto il mondo. Esse invece hanno un carattere meramente oggettivo: sono guarentigie, non della persona del Papa, ma della funzione che gli compete in materia religiosa fuori d’Italia; la persona di lui, in tanto viene garentita ed equiparata a quella di un sovrano,-in quanto altrimenti il Papa non potrebbe convenientemente adempiere le altissime mansioni inerenti al suo ufficio, esplicantisi in tutti i paesi del mondo. Qui, citato un punto del discorso di Ruggero Bonghi, che fu relatore alla Camera del progetto di legge sulle Guarentigie, a prova del carattere dei privilegi conferiti da détta legge al Papa, il Mosca insiste nella dimostrazione di tal carattere distinguendo tre ordini di attribuzioni che il Papa esercita di fallo in materia religiosa e cioè: « 1® Attribuzioni o poteri del Pontefice fuori dei confini d’Italia sulle chiese, sul clero e sulle istituzioni ecclesiastiche dei singoli Stati esteri; 2® Attribuzioni e poteri del Pontefice in Italia, sulle chiese, sul clero e sulle istituzioni ecclesiastiche nel regno; 3® Attribuzioni speciali del Pontefice come titolare del Vescovato di Roma ». Secondo il Mosca, le prerogative concesse al Papa dal primo titolo della legge 13 maggio 1871, sono dirette a garantirgli l’esercizio « in Roma e da Roma » del primo ordine di attribuzioni, e la sua assoluta indipendenza nell’esplicazione di tale esercizio. Perciò lo scrittore dice che sono in errore coloro che invocando il principio libera Chiesa in libero Stalo, quello di separazione, ecc. vorrebbero tolto ogni privilegio alla Chiesa di Roma. Poiché qui non si tratta di rego-
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lare la posizione delle Chiese in Italia, ma la posizione d’una istituzione che pur risiedendo in Italia esercita i suoi poteri religiosi fuori del regno. È un problema peculiare dell’Italia questo, problema che si presenterebbe altrove se il Pontefice si trasferisse altrove. Quindi non possono abolirsi le guarentigie senza volere che la Chiesa cattolica trasferisca dall’Italia la sua sede.
Gli attributi di sovranità in cui consistono le guarentigie si riducono a quattro, così specificati dal Mosca: « i° Nel diritto del Pontefice alla stessa immunità ed invio-labilità personale di cui gode il Re, col conseguente diritto agli onori sovrani, ad un certo numero di guardie addette alla sua persona, al divieto di accesso, senza sua autorizzazione, degli ufficiali pubblici nei palazzi e luoghi di sua abituale residenza o temporanea dimora (art. i, 3 e 7); 2° Nel diritto di compiere, con assoluta indipendenza da ogni ingerenza, diretta o indiretta, del Governo, ossia non come un cittadino od uno straniero qualunque residente in Italia, ma come vero sovrano, tutte le funzioni del suo ministero spirituale, per modo che tutti gli ecclesiastici i quali, per ragione di ufficio, partecipano in Roma all’emanazione degli atti dei ministero della Santa Sede sfuggono, per ragione di- essi, a qualsiasi molestia, investigazione o sindacato dell’autorità pubblica (art. 9, io, 16); 30 Nel diritto di ricevere ed avere in Roma, come Sovrano, rappresentanti diplomatici delle Potenze estere, con tutte le prerogative ed immunità spettanti ai diplomatici secondo il diritto internazionale e nella correlativa facoltà di inviare da Roma, come sovrano, cioè con le anzidetto prerogative ed immunità, rappresentanti propri presso le Potenze estere e corrieri di gabinetto (art. n); 40 Nel diritto di corrispondere liberamente da Roma, mediante proprii uffici postali e telegrafici, serviti da impiegati di sua scelta, con l’Epi-scopato e con tutto il mondo cattolico ».
Se si negasse uno qualsiasi di questi attributi, afferma il Mosca, il Papa non potrebbe più esplicare di fronte ài varii Stati gli altissimi poteri in materia religiosa del suo ufficio.
Che le guarentigie costituiscano un diritto obbiettivo, deve così interpretarsi nel senso che esse sono guarentigie della funzione del Papa, anziché subbiettive della sua persona; e che, « non avendo la legge alcun carattere contrattuale, le
guarentigie vanno interpretato secondo lo spirito informatore di essa, indipendentemente dal consenso e dall’approvazione del Pontefice o d’altri ».
Il secondo punto essenziale da stabilire, dice lo scrittore, è che la internazionalizzazione della detta legge porterebbe direttamente alla menomazione della indipendenza e della sovranità dello Stato italiano, assoggettandolo al controllo, alla tutela di altri Stati ed al pericolo continuo del loro intervento qualora circa l’interpretazione o l’applicazione della legge sorgesse controversia tra un Papa e l’Italia, o quegli si dolesse della politica ecclesiastica di questa. Qui il Mosca afferma solennemente che i cattolici italiani, nella loro infinita maggioranza, sono talmente gelosi della dignità della nostra nazione, che in cuor loro preferirebbero • mille volte il trasferimento della Santa Sede dall’Italia alla sua permanenza in Roma, a condizioni così mortificanti e pericolose pel nostro paese ».
Agli stessi pericoli si esporrebbe l’Italia se si volesse dare un carattere contrattuate alla legge, cioè un carattere di concordato. Ogni piccolo screzio infatti, ogni violazione vera o supposta del contratto, sarebbe fomite di guai.di interventistranieri e fors’anco di guerre.
A questo punto, a conforto di quanto ha già detto, Fon. Mosca fa un rapido cenno storico sulla questione della internazionalizzazione della legge delle guarentigie, riferendo anche i punti salienti della discussione parlamentare intorno alla legge stessa.
Finalmente lo scrittore viene alla prova, diretta del suo assunto, derivandola da quanto ha premesso. «Leguarentigie—egli dice — pur essendo stabilite da una legge nazionale e interna, formalmente e teoricamente revocabile ad arbitrio dello Stato italiano, sono in realtà sostanzialmente e permanentemente intangibili ». Se in fatti, come si è detto, esse costituiscono le condizioni oggettive indispensabili alle mansioni di Pontefice ed all’esplicazione dei suoi poteri di fronte ad altri Stati, il menomar sostanzialmente o l’abolir le guarentigie costringerebbe il Papa ad andarsene da Roma. Conseguenza quindi della restrizione sostanziale delle guarentigie sarebbe o l’intervento straniero o l’allontanamento della Santa Sede. Pertanto nessun Governo, quand’anche salissero al potere 1 più fieri anticlericali e giacobini.
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«PRO» E «CONTRA» LA PARTECIPAZIONE DEL PAPA AL CONGRESSO DELLA PACE 25I
potrebbe esporre a questo l’Italia. Il popolo, anche fosse diventato in maggioranza areligioso, vi si opporrebbe, « perchè il Papato è un’istituzione essenzialmente italiana che pel suo carattere d’universalità discende direttamente dall’impero Romano, lo perpetua ne) campo religioso, ed è, sotto molti aspetti, vanto e gloria d’Italia. In secondo luogo perchè l’Italia ha sommo interesse principalmente morale e storico a continuare ad esser Sede della Chiesa cattolica e del Sommo Pontefice •.
D’altra parte, è seriamente supponibile — si chiede Fon. Mosca — che la Santa Sede abusi in avvenire delle guarentigie, avvalendosene per cospirare contro l’Italia ed attentare alla sua integrità ed unità, in modo da corre un giorno il popolo italiano e il suo Governo nella necessità di sopprimere e di vulnerare essenzialmente le guarentigie stesse e costringere così il Papa ad andarsene da Roma?
Anche questa ipotesi sembra assurda ed irrealizzabile al Mosca, quand’anche la Santa Sede potesse cadere in mano di un Papa e d'un Collegio di cardinali tutti stranieri, tutti temporalisti intransigenti, tutti nemici acerrimi dell’Italia e della sua unità. Trasferendosi fuori di Roma in altri Stati, secondo lo scrittore, la Chiesa cattolica perderebbe gran parte del suo prestigio e della sua autorità e del suo carattere tradizionale, e più ancora perderebbe uno dei suoi requisiti storici, che essa proclama essenziali, e cioè la romanità, cessando di essere chiesa romana. Inoltre il Papa, allontanandosi da Roma, e cessando di fatto d’esser vescovo di Roma, verrebbe a rinnegar le sue origini. Infine l’interesse a conservare un privilegio è la miglior garanzia del non abuso del privilegio stesso, poiché l’abuso porta fatalmente alla perdita, e perdita indecorosa, poiché, per usare le parole del Visconti-Venosta, ministro degli esteri nel 1871, «allora l’opinione del mondo civile ci renderebbe assai facile di far cessare gli inconvenienti i quali sarebbero condannati dalla coscienza pubblica »,
Prima di concludere. Fon. Mosca giustifica pienamente l’atteggiamento del Governo italiano nella questione degli Ambasciatori allo scoppiò della nostra guerra. E durante la guerra stessa, l’Italia ha tenuto fede alle sue promesse tutelando degnamente la libertà pontificia. Le relazioni del Papa coi paesi esteri, compresi quelli
con cui l'Italia è in guerra, si esplicano normalmente: si son tenuti conclavi e concistori con l’intervento di prelati stranieri senza che alcuno ne menomasse la libertà. Così « l’esperienza di 45 anni ha ormai dimostrato come le guarentigie concesse dalla legge 13 maggio 1871 al Sommo Pontefice per l’esercizio del suo potere in materia religiosa presso tutti gli Stati esteri, non solo non hanno menomata quella specie d’indipendenza e di sovranità che gli conferiva i potere temporale, ma l’hanno invece rafforzata ed accresciuta così nei tempi normali di pace, come nei tempi anormali di guerra. La prova del fuoco è ormai superata ».
L'Italia, privando il Papato del potere temporale, il quale nessuna garanzia efficace dava al Papa per la sua indipendenza e pel pieno esercizio dei suoi poteri in materia religiosa, gli ha reso un vero servizio, rendendolo invulnerabile. E ben Io riconobbe il Bismarck. Onde piena ragione aveva il Bonghi quando, rispondendo ad alcuni oratori alla Camera dei Deputati, diceva: « È stato affermato da alcuni degli oratori che i privilegi che il primo titolo della legge accorda al Pontefice non sono tali da .surrogare quella garanzia di indipendenza all’azione spirituale che il potere temporale gli ha dato sinora... Quest’affermazione non può non parere meravigliosa a tutti quelli che conoscono non solo di quanta scarsa garanzia è stato alla indipendenza del Pontefice il potere temporale, ma come anzi questo ha assoggettate a sè e corrotto spessissime volte tutta quanta Fazione spirituale... Intenderei che questa obbiezione venisse da . persone che negano alla religione cattolica ogni vigore morale ed ogni avvenire, ma nei cattolici, per Dio, non la intendo. Si fermino per poco a guardare cotesti dodici secoli di principato temporale, e li vedranno trasmutare di colore davanti a loro, e l’autorità spirituale del Pontefice brillare di men pura luce, via via che l’idea del principe diventa più chiara e spiccata ».
Con ciò il Mosca dice di aver dimostrato pienamente il suo asserto. E riassume le conclusioni del suo lungo articolo colle seguenti parole:
« 1® Sarebbe un imperdonabile errore, già rilevato nel 1860-61 dal Cavour, e nel 1870-71 da insigni nostri patrioti ed uomini politici, il dare carattere internazionale o contrattuale alla legge delle guarentigie: errore che condurrebbe all’unica conse-
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guenza di menomare l’indipendenza e la sovranità d'Italia e di compromettere l’avvenire del nostro paese, senza punto accrescere o rafforzare la stabilità ed intangibilità delle guarentigie del Sommo Pontefice in Roma; stabilità ed intangibilità che riposano su basi ben più salde e durature delle convenzioni internazionali e dei concordati, vale a dire sulla coincidenza dei sommi, vitali interessi che hanno rispettivamente l’Italia da una parte, e il Papato dall’altra, a che la sede della Chiesa cattolica apostolica romana e del Sommo Pontefice, Vescovo di Roma, rimanga in Roma.
« 2° L’allocuzione pontificia del 6 dicembre 1915, pronunziata durante questa immane conflagrazione europea, in attesa di un Congresso, più o meno prossimo, per la pace, il quale dovrà risolvere i più gravi problemi internazionali dell’epoca moderna, ha giustamente turbato gli animi di molti italiani e suscitato serie preoccupazioni perchè ha latto sorgere il sospetto che si voglia sollevare in quel futuro Congresso, come una delle questioni internazionali da discutere e da risolvere, anche la cosidetta questione romana, o meglio delle guarentigie del Sommo Pontefice in Roma; il che, se fosse vero, mal si concilierebbe con le dichiarazioni rassicuratoci del Cardinale Segretario di Stato Gasparri, del 28 giugno 1915, poiché il richiedere l’internazionalizzazione delle guarentigie concesse dalla legge 13 maggio 1871, o di altre più larghe, implica invocare fin da ora, per quando occorra, l’intervento straniero.
« 3° L’Italia deve, per la tutela suprema della sua indipendenza, della sua esistenza e del suo avvenire, opporsi risolutamente e recisamente a qualsiasi tentativo o proposta di partecipazione del Sommo Pontefice al futuro Congresso della pace. E ciò non per mancanza di deferenza o di riguardo al Capo della Chiesa cattolica, non per disconoscimento della sua alta autorità morale, o della sincerità dei suoi sentimenti o dell efficacia dell’opera sua in favore di una pace giusta e durevole, ma perchè il semplice fatto dell’intervento di un rappresentante del Sommo Pontefice in quel Congresso, rendendo possibile a lui, o agli avversi all’Italia, di presentare come una Ìuestione internazionale da risolvere quella elle guarentigie della Santa Sede, in Roma — questione che ha solo l'apparenza formale, ma non ha, nè avrà mai, almeno finché la natura e gl’interessi sommi del popolo
italiano e della Chiesa cattolica non si sovvertano completamente, la sostanza ed il valore di una questione — rappresenterebbe per l’Italia un imbarazzo ed un pericolo ».
“IL CORRIERE D’ITALIA”
Il Corriere d'Italia, che passa per ufficioso della Segreteria di Stato vaticana, nel numero del 14 gennaio recava un articolo, dal titolo « Due quesiti e due risposte », che per la sua intonazione, è degno di essere rilevato.
I due quesiti sono la partecipazione del Papa ad una futura conferenza per la pace, e la sua intenzione di risolvere in tale occasione la questione romana.
Scrive il giornale:
« È stato detto, dunque, che il Papa vuole intervenire al Congresso per la pace, e che per questo conta sull’appoggio degli Imperi Centrali i quali, anzi, già gliene avrebbero offerto la presidenza.
«La delicatezza dell'argomento non ci permette di parlare come se noi fossimo gli interpreti del pensiero del Papa e del suo programma; ma la conoscenza che abbiamo dell’ambiente ci rende sicuri di non ingannarci se riassumiamo la questione nei termini seguenti.
« La Santa Sede non ha fatto mai nulla, fino ad oggi, per sollecitare, direttamente o indirettamente, dall’uno o dall’altro dei belligeranti l’invito a partecipare o a presiedere il Congresso della pace. D’altra Sarte, l’esame delle cose porta a conclu-ere che, anche volendolo, la Santa Sede non avrebbe potuto fare alcun passo di tal genere, a meno di supporre da sua parte una ignoranza perfetta della situazione. Non bisogna dimenticare, infatti che, quali che siano per essere i risultati reali della guerra, finora nei propositi e nelle dichiarazioni dei due gruppi belligeranti non c’è che una risoluzione, o la vittoria completa dell’Intesa, o la vittoria completa degl’imperi Centrali. Ora è altrettanto evidente che, nell’un caso o nell’altro, la parte che ritiene di dover uscire dal conflitto pienamente vittoriosa si prepara a dettare essa le condizioni della pace all’infuori di qualunque compromesso con estranei, quindi È puerile supporre che, stando così le cose, la Santa Sede si attenti a chiedere a coloro che combattono di partecipare ad una conferenza che per identiche ragioni è da essi
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tutti del pari esclusa. Resterebbe, dati sempre i propositi di vittoria assoluta in entrambi i campi, l’ipotesi che la guerra Sotesse finire per [’esaurimento ^fatale elle forze delle quali dispongono. È vero che in tal caso la conferenza si imporrebbe di per sè, ma è altrettanto chiaro che ancora maggiore è per la Santa Sede l’impossibilità di chiedere oggi di parteciparvi, basando la sua richiesta su di una supposizione così sfavorevole per ambedue i belligeranti».
Da ciò il giornale trae la conseguenza che nè il papa ha fatto mai alcun maneggio per essere ammesso all’ipotetico Congresso, nè che da parte di alcun governo egli sia stato invitato. Passa quindi a chiedersi la ragione della paura degli avversari circa la possibilità di vedere il Papa ài Congresso, e dice che non v’è ragione seria a temerne a meno che non si voglia identificare il programma dell’Italia col programma della Massoneria. Ritiene anzi che l’intervento del Papa sarebbe assai utile alla Patria nostra, perchè egli non vi solleverebbe nuove questioni non contenute nel suo programma naturale qual'è la liquidazione della guerra europea. La firma del Papa darebbe poi speciale fermezza ad un trattato impegnativo delle Potenze, perchè vincolerebbe la coscienza dei sudditi cattolici di tutte le nazioni, i quali perciò non potrebbero approvare qualsiasi governo che si attentasse a lacerarlo.
Ed eccoci all'altro quesito, se cioè il Papa, prendendo occasione dalla guerra e da una possibile conferenza per la pace, voglia risolvere in un modo qualsiasi la questione romana. Anche qui riportiamo la parte essenziale di ciò che scrive il giornale.
« Il Papa, ogni volta che ha parlato della sua condizione, l’ha dichiarata penosa, anormale. Le parole sono così discrete che possono essere pienamente accettate da quanti, anche fuori del nostro campo, non hanno nel loro programma politico la guerra dichiarata e cieca contro la Chiesa cattolica ed il Suo Capo. I fatti che sono stato addotti a prova di tale affermazione hanno avuto anch’essi lo stesso significato, quello cioè di dimostrare la maggiore o minore portata di questa anormalità. Ma non è stata mai detta una parola che potesse far credere che il Papa conti sulle possibili vicende del conflitto europeo per definire la propria situazione; anzi quando venne chiesta una
più esplicita dichiarazione su questo punto, il Cardinal Gasparri disse a noi che, per quel che riguarda l’Italia, il Papa aspetta « la sistemazione conveniente della sua situazione, non dalle armi straniere ». Le parole del Cardinale Segretario di Stato, sono di una chiarezza tale che bisogna deliberatamente sopprimerle per poter sup-Korre altre mire ed altre intenzioni nel-atteggiamento della Santa Sede.
« Quello che il Papa e i cattolici tutti con lui, italiani e stranieri, desiderano è che la penosità, la anormalità della situazione della Santa Sede vengano eliminate ».
Questo desiderio non è di oggi e non è causato dalla guerra. « Anzi — aggiunge il Corriere (l'Italia — nelle presenti circostanze esso ha trovato la sua più discreta espressione ». Circa i mezzi per risolvere il problema, solo il Papa è giudice competente. I cattolici d’ogni paese non possono nè debbono fare altro che attender la sua parola.
FILIPPO CRISPOLTI (I)
Fra coloro che nel campo cattolico, a proposito della intangibilità o meno della legge delle guarentigie e dell’intervento del Papa al futuro Congresso della pace, sorsero a sostenere il punto di vista clericale, il più prolifico è certamente Filippo Cri-spolti, di cui ricordiamo sul soggetto una intervista accordata al Giornale d'Italia, l’articolo sulla Nuova Antologia che pur riassumiamo in questa rassegna, e due diffuse lettere all’on. Mosca pubblicate nel Corriere d’Italia (numeri del 15 e 17 gennaio). Di queste due lettere la prima, « Sulla intangibilità della legge delle guarentigie », è una sommaria critica alla parte dello studio dell’on. Mosca che riguarda lo stesso argomento.
Il Crispolti crede rilevare due gravi difetti nel ragionamento del Mosca. Il primo sarebbe quello di considerare come va-Sheggiate dai cattolici le innovazioni alla etta legge nel senso della internazionalizzazione di essa o di renderla da interna, cioè esclusiva dello Stato sovrano, a concordataria, cioè a contratto bilaterale col Papa. Per ciò che riguarda l’internazionalizzazione il Crispolti dice che essa fu sostenuta non da clericali, ma da liberali, come Stefano Jacini e Guido Falorsi. Per contrapposto la non accettabilità di tale tesi da parte dello Stato italiano fu sostenuta fin dal 1S98 dal Crispolti stesso (v’è
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però tra i suoi confratelli chi gli negò allora, come anche adesso il diritto di parlare a nome dei cattolici e chi gli ha contestato anche il diritto di fregiarsi dell’appellativo cattolico), il quale scriveva allora cosi:
« Fate che quella legge, comunque ritoccata, divenisse internazionale, e che Kjrciò la condotta del Governo verso il ipa fosse soggetta al continuo ed effettivo controllo delle nazioni, potrebbe il Governo nella propria capitale tollerare a lungo d’essere l’esecutore della volonà altrui, in un ramo cosi grave e quotidiano dell’azione propria? Non equivarrebbe questo ad avere un quid simile d’una guarnigione internazionale? *
Il regime concordatario poi, considerato come una specie di benedizione del Papa e di sua approvazione agli atti pubblici che formarono il regno d’Italia, nessuno — afferma lo scrittore —lo propose al Papa come un mezzo per rendere più stabili e più immutabili le guarentigie.
Ma il non proporre o < il non mostrare di proporre • — le parole sono del Crispolti — nessun provvedimento migliore, non fa che siano senza fondamento le critiche delle guarentigie fatte dai cattolici o dal Papa. «A coloro che-fanno l’apoteosi incondizionata delle guarentigie, è cosa pienamente congrua mostrare gli inconvenienti di esse, come ha fatto recentemente il Sommo Pontefice, anche senza dire che cosa starebbe bene in luogo delle guarentigie ».
un altro difetto del ragionamento del Mosca starebbe, secondo il Crispolti, nel difendere le guarentigie dalla sola accusa di un loro vizio capitale, quello di poter essere abolite di un colpo e mutate in un regime di persecuzione egualitaria (?), ciò che anche il Crispolti ritiene improbabile. Il Mosca però non avrebbe tenuto calcolo di una politica ecclesiastica, la quale « senza giungere a questo estremo, interpreti ed applichi le guarentigie in modo piccino, astioso, offensivo; un modo,
che il viver m’avvelena e non mi fa morir».
Così è vero che dei ministri che si son susseguiti in Italia, nessuno ha osato abolire le guarentigie, ma è anche vero che nella nostra politica ecclesiastica « è il tono che ha fatto la musica », ed i criterii minuti sono stati oscillanti. E anche quando, come oggi, il Governo è stato di buona
intenzione nell’interpretar le guarentigie e nel l’applicarle generosamente, gli inconvenienti lamentati dal papa si sono verificati, principalmente quello d’essergli venuta a mancare la normale comunicazione colle potenze avverse all’Italia. Inconveniente gravissimo questo, dice il Crispolti, Serchè mai come nelle attuali condizioni
i cose il Papa avrebbe avuto interesse di essere in continuo contratto con tutte le jotenze per esercitare la propria opera di >acificatore e per mostrare la propria im-»arzialità. Non vale, prosegue Crispolti, ’argomento storico che prima del 1870 le cose andavano peggio che ora, perchè il potere temporale che fosse voluto rimanere in pace, doveva subire necessariamente il contraccolpo d’uno stato di guerra riguardante non lui, ma un regno estraneo. Ed aggiunge, insistendo poco abilmente sull’argomento, che vorrebbe provar troppo:
« Ad ogni modo le potenze che un tempo avessero veduto alterata la propria posizione dinanzi al Papa, avrebbero potuto dolersene col Papa stesso, non con un ordinamento esteriore, a cui si trovassero contemporaneamente assoggettati, il Papa da una parte e i loro rapporti con lui, dall’altra ».
Così, deducendo logicamente da queste parole, era meglio, secondo Filippo Crispolti, che il Papa fosse come sovrano terreno in terra guerreggiata colle altre potenze, che non essere temporaneamente, Eer condizioni di cose estranee alla sua vo->ntà, nella impossibilità, non di comunicare con esse, ma di tenerne presso di sè gli ambasciatori. Tesi questa, in verità troppo ampia.
Un terzo difetto trova il Crispolti nello scritto del Mosca, e difetto assai più grave degli altri due, cioè neH’aver concluso il Mosca contro l’intervento del Papa al Con-Scesso per la pace. E questo terzo difetto
Crispolti vuol rilevare ed oppugnare nella seconda delle accennate lettere: « Il Papa e la conferenza per la pace ».
Il Mosca, arguendo dalle frasi di Benedetto XV nell’allocuzione concistoriale, che lasciavano supporre l’intenzione nel pontefice di sollevare al Congresso la questione romana, ne deprecava l’intervento. Crispolti dice che il Mosca, ed altri con lui, hanno errato interpretando così le parole pontificie. La ragione per cui il Papa parlò in quel modo, giusta lo scrittore, sarebbe perchè « Egli volle infirmare apoteosi recenti delle guarentigie... Egli non aveva
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protestato — cosa molto significante — quando gli inevitabili inconvenienti avvennero; fece udire la propria voce quando, per uno zelo frettoloso, il Governo italiano non solo li dimenticò, ma affermò solennemente che le guarentigie aveano superato in modo mirabile la prova ultima e definitiva della loro bontà. Egli allora, con fatti e considerazioni, volle mostrare che le antiche obiezioni contro di esse valevano tuttavia: volle in una parola serbare intatte le riserve di sempre, non già prendere un atteggiamento pratico nuovo ».
Pertanto l’allocuzione non fu un programma per il Congresso, ma una delle solite proteste e riserve.
Al timore che un delegato del Pontefice al Congresso possa presentarvi come questione internazionale da risolvere quella delle guarentigie, il Crispolti anzitutto op-Ene che, anche senza la presenza di esso legato, possono esservi delle potenze che domandino alla conferenza, riferendosi ad esempio alla permanenza in Roma degli ambasciatori presso il Vaticano: « perchè essendo noi in guerra coll’Italia, ma non colla S. Sede, abbiamo avuto a subire una menomazione nella nostra rappresentanza presso di essa? Non c’è dunque un difetto a noi nocevole nella posizione fatta alla S. Sede in Roma? »
Cosicché, afferma lo scrittore, l’unico modo per render più diffìcile e meno fastidiosa una tale eventualità sarebbe la presenza del rappresentante pontificio, perchè in caso di conflitto tra l’Italia e le potenze estere per la situazione del Papato in Roma, a queste non importerebbe affatto che l’Italia ne subisse fastidi e menomazioni, mentre invece la Santa Sedè farebbe opera di conciliazione perchè ama l’Italia, almeno quanto le altre nazioni, e poi perchè deve vivere in Italia e quindi cercherà sempre il quieto vivere.
Ma se il Papa intervenisse al Congresso egli non scenderebbe al livello di coloro, per cui il Congresso sarà una disputa di affari, e non vorrebbe certo perdere, portandovi questioni proprie, la figura suprema di disinteressato mediatore universale.
L’Italia poi. anziché ostacolare, dovrebbe favorire l’intervento del Papa, perchè ciò ingenererebbe nel Pontefice la certezza del pieno e del sincero funzionamento della legge sulle guarentigie. Poiché «quanto piu cresca l’efficacia internazionale pontificia, tanto più crescerà nel Papa la co
scienza della propria sicurezza all’interno, e il favorire questo accrescimento sarà stato per l’Italia un’acuta e abilissima diversione ».
Per contrario le guarentigie sarebbero già virtualmente e di fatto manomesse, se col loro pretesto si impedisse al Papa di presentarsi in un sinedrio in cui dovrebbe esplicare la sua più alta missione, quella di adoprarsi alla rappacificazione del genere umano.
Pertanto, se il Congresso ci sarà o no, non si dica che l’Italia fu consigliata ad opporsi « priori all'intervento papale, e che essa, cieca dinanzi alla grandezza di un atto, per cui si riconoscerebbe che la forza morale ha diritto di essere ascoltata dove altrimenti parlerebbe solo la forza materiale e cruenta, accampò la pedanteria di un ripicco geloso e d’una misera paura per ricalcitrare.
ON. ROMOLO MURRI
La legge delle guarentigie, dunque, secondo Fon. Mosca, sarebbe sostanzialmente immutabile. Ma l’illustre giurista aveva dimenticato nel suo ragionamento di tener conto di un fattore importantissimo. Egli aveva considerato il lato giuridico della questione e il lato politico in rapporto al giuridico concludendo per la statica della legge; non aveva considerato il lato giuridico in rapporto al politico, ciò che lo avrebbe forse condotto a conclusioni diverse perchè è la vita e le necessità di essa che creano il giure e non il giure che fa la vita.
Questo ha voluto rilevare Fon. Romolo Murri in suo articolo su L'Idea democratica del 22 gennaio, intitolato: «La legge delle guarentigie sostanzialmente immutabile? L’errore dell’on. Mosca », nel quale, dopo avere riassunto quello del Mosca, viene a dimostrare come le cose siano già lentamente venute mutando ad ogni papa, ad ogni ministro che muti. Fra l’altro ricorda come nel 1S71, quando la legge delle guarentigie fu sanzionata, come si sa con certezza da documenti diplomatici pubblicati, il governo italiano era disposto ad accettare F internazionalizzazione della legge stessa, se le potenze cattoliche lo avessero richiesto. Oggi invece, e a ragione, lo stesso 011. Mosca ne conviene, tale internazionalizzazione è ritenuta assurda. In senso strettamente giuridico non si fa che conservare alla legge il suo carattere: ma po-
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liticamente si è fatto un passo avanti e si afferma che « non ad un corpo di cattolici che eccede l’Italia, ma a se stessa questa deve le garanzie accordate al papato. Libera Chiesa per legge dello Stato ».
Da questo devesi concludere che « una Chiesa, la quale mutua da altri la sua li-berta, non è il vero soggetto della libertà; ma solo la coscienza dei cittadini, i quali con legge veramente civile fissano le sanzioni dell’esercizio pratico della loro libertà di farsi delle Chiese e di attribuire ad esse le facoltà giuridiche ritenute necessarie per la loro vita pratica »,
Ma ciò, scrive il Murri, potrà parere al Mosca filosofia ed accademica, e si affretta quindi a citar fatti concreti. Rammenta dapprima come la Francia, che nel 1878 era pronta a far guerra all’ Italia per il potere temporale, nel 1905 ruppe ogni rapporto col Vaticano, seguita in ciò più tarai dal Portogallo. Se la guerra attuale sarà vittoriosa per gli alleati, è facile che un soffio di democrazia farà dei passi anche nelle potenze centrali, e con ciò il Vaticano perderà i maggiori appoggi nella sua intrigante politica temporalista. E così facilmente le garanzie pontificie « avranno probabilmente mutato natura quando esse serviranno solo... per le repubbliche del Sud America ».
Inoltre per lungo tempo la Curia romana, prevalendosi della remissività dello Stato italiano, era giunta ad inquinare tutta la vita politica premendo sulla sovranità nazionale espressa nei comizi, e sul potere legislativo.
Colla guerra, apparsa la lealtà nazionale di molti cattolici, la Santa Sede si è trovata e si trova politivamente pressoché deserta nelle sue velleità di risollevare la questione romana.
L’on. Mosca dice che la Santa Sede ha un interesse supremo di non muoversi da Roma ; ma — replica il Murri — essa ha anche un pari interesse di ripudiare e ne-Ìare la legge delle guarentigie, a volere orme più effettive di verace sovranità.
« Partirebbe oggi da Roma se sapesse di poter con ciò commuovere efficacemente il mondo; non partirà, anche mutate le nostre leggi, se da ciò le venga solo una diminuzione di prestigio e di potere, senza profitto.
« Perchè la Chiesa, come istituto ecclesiastico-politico, è in lotta, prima e più che con lo Stato italiano, contro un’altra forza: contro una concezione più spirituale della vita e dell’istituto religioso; e contro
di questa, per resistere c reggersi, ha bisogno di accrescere l’accentramento burocratico, il prestigio e i privilegi politici dei quali ancora gode, e tutte le vecchie tendenze ed interessi di reazione che concordano con i suoi. Tiene per nulla l’on. Mosca la tenace lotta pontificia per il potere temporale, le simpatie e le preferenze che la neutralità pontificia rivela, la lotta di Pio X contro il modernismo (e l’ultima parola è lungi dall’esser detta) e tanti altri sintomi di una lotta interna, nel catto-licismo ?
« Per la quale avverrà un giorno che la stessa coscienza religiosa imporrà l’abbandono di un apparato di sovranità anacronistico ed ingombrante. Lenti processi, certo; ma che non permettono di ipotecar l’avvenire sino a perdita d’occhio per l’immobilità della legge ».
All’altra deduzione del Mosca che l’Italia ha un vitale interesse a che Roma rimanga sede e centro del cattolicismo, il Murri oppone che altri interessi ed esigenze non meno gravi essa ha che sono in irriducibile contrasto con quelle del papa. E’ vero che il papato è istituzione romana, e che, malgrado i litigi, l’Italia lo esalta come cosa sua. Ma ciò costituisce ormai un pericolo sempre più grave per la degenerazione della Chiesa in clericalismo ed in partito politico, ciò che le toglie ogni contenuto spirituale ed è la causa fondamentale di ogni male morale del nostro paese.
Il Murri, pertanto, conclude rilevando che la legge delle guarentigie è un compromesso dinanzi al potere politico che il papato possedeva ancor grandissimo in Italia nel 1876. La Chiesa non l’accetta e lo Stato l’ama d’un amore troppo geloso. Per lunghi anni essa ha inceppato lo Stato italiano, perchè essa era di fatto sotto la garanzia di potenze alleate e nemiche e lo Stato non osò avere una politica ecclesiastica sua. Non si osava fare atto alcuno che sollevasse la suscettibilità del papa al quale ogni minimo incidente dava pretesto a nuove querimonie. Ciò fu ed è una effettiva diminuzione di sovranità per lo Stato è anzi la principale debolezza dello Stato italiano e non può perpetuarsi senza che ne sorga un pericolo serio per la stessa laicità dello Stato e pei- lo sviluppo delle istituzioni democratiche.
< La politica ecclesiastica dell’ Italia non potrà per molto tempo riassumersi tutta nel montar la guardia alla guardia del Vaticano ».
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ON. EDOARDO SODERINI
II Papa deve partecipare al Congresso della Pace e l’Italia non solo non deve Krvisi, ma ha tutto l’interesse a che Retto XV intervenga al problematico consesso: questa è la tesi che ha impreso a difendere Eduardo Soderini, già latore della Rosa d'oro ed esente delle guardie nobili pontificie ed ora deputato clericale pel collegio à’Osxmo (Nuova Antologia, i*> febbraio).
Il Soderini prende le mosse dalle conclusioni dell’on. Mosca, affermante che «L'Italia deve per la tutela della sua indipendenza, della sua esistenza e del suo avvenire, opporsi risolutamente e recisamente a qualsiasi tentativo o proposta di partecipazione del Sommo Pontefice al futuro Congresso della Pace », e ciò a causa della legge delle guarentigie che nessuno dovrà tentare di porre in discussione.
I.’on. Soderini risponde innanzi tutto facendo proprio ciò che Filippo Crispolti aveva detto in una sua intervista, che cioè si doveva volere dagli italiani che il Papa intervenisse al Congresso precisa-mente ad evitare che una qualsiasi Potenza, per creare imbarazzi all’Italia, sollevasse essa la questione. Il Soderini va anzi più in là, e crede poter dedurre che « se il Papa volesse sollevata al Congresso la questione delle guarentigie, egli dovrebbe essere il primo a non volervi intervenire, perchè lascerebbe così liberi gli altri di sollevarla a proprio talento ».
Come per tnctdens, il Soderini, a questo punto, tenta conciliare le parole del cardinal Gasparri, in una sua intervista col Corriere d'Italia, con le acri rampogne e proteste di Benedetto XV nell’ultimo concistoro. Non ci fermiamo su tale ermeneutica piena di buona volontà, che non rientra direttamente nei fini dell’articolo, se non per dedurne che in fondo il Papa non è nemico dell'Italia e neppur di quella tale legge, che dovrebbe però essere resa consona ai voleri ed ai desideri pontifici.
Dell’allocuzione pontificia il Soderini sceglie come caposaldo il periodo in cui il Papa, riferendosi alle trattative corse tra Governo e Vaticano circa gli ambasciatori presso la S. Sede prima della guerra nostra, doveva ammettere che « certo non fece difetto a coloro che governano l’Italia la buona intenzione di eliminare gli inconvenienti ». Il deputato di Osimo deduce che Benedetto XV volle con quelle
parole... smentire la calunnia austriaca che dipingeva il Vaticano assediato da una folla di energumeni, minaccianti l’incolumità del Papa!
Che avverrebbe se il nostro Governo volesse escluso il Papa dalla Conferenza? Non ne verrebbe, afferma il Soderini, la soluzione della questione romana, ma piuttosto un inasprimento perchè — qui è bène riprodurre testualmente le parole affinchè non si perda nulla del curioso ed interessante ragionamento — « ci si potrebbe dire, la legge delle guarentigie è intesa a garantire al Papa il libero e pieno esercizio della sua altissima missione spirituale, e poiché di questa missione appunto fa parte, il cercare, in nome della religione di Cristo, di pacificare tra loro le popolazioni cristiane, non ne segue forse che il volere impedire al Papa d’intervenire là dove di questa pacificazione si deve trattare ex professo, sarebbe un porsi in contradizione con lo spirito della legge stessa delle guarentigie? »
Aggiungasi, prosegue lo scrittore, la Ìrande forza morale che alle decisioni del uturo Congresso verrebbe dalla presenza del Papa. E si ricordi che le decisioni della Conferenza dell'Aia non hanno avuto alla frova valore alcuno... per l’esclusione del apa.
Passando ad un altro lato della questione, il Soderini dice che il volere tener lontano il Papa dal Congresso si risolverebbe in auesto: «Spingere il Papa nelle braccia ella Germania e dell’Austria », pel fatto che esse, come si è detto e ripetuto, vorrebbero l’intervento del pontefice.
Per considerazione di politica interna poi, qual lievito di malcontento non produrrebbe tra i cattolici l’esclusione del Papa? Questi cattolici, che dànno ora prova indubbia di patriottismo, porterebbero in pace l’atto ingiusto del Governo di casa loro? Invece, avere amico il Papato, oltre che riaffermare e consolidar per sempre il lealismo cattolico, sarebbe di aiuto immenso per l'Italia nell’espan-dere la sua azione in Oriente. (A proposito di quest’ultimo periodo, ci sia permesso di dire che se la tesi politicamente può essere buona, non è certamente un cattolico che dovrebbe produrla, perchè si risolverebbe nel rendere la religione e la Chiesa mancipia o manutengoli di interessi del tutto umani, di banche, di affarismi, di nazionalismi, ciò che esorbiterebbe dalle finalità e dalle attribuzioni della Chiesa).
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Finalmente il Sederini afferma che la presenza del Papa al Congresso sarebbe necessaria per la ricostituzione delle nazionalità, a cui l’Italia ha tutto l’interesse, del Belgio, della Polonia, della Serbia, ecc. Per porre d’accordo su questo le varie potenze, che hanno in proposito interessi divergenti od opposti affatto, occorre una forza d’ordine morale, che non avendo interessi territoriali da tutelare, non possa credersi nell’azione sua mossa da questi, e tale forza, conclude lo scrittore, non l’ha che il Papa.
ERNESTO NATHAN
La breve nota di Ernesto Nathan (Nuova Antologia, 16 febbraio) accenna più che svolge un dato di fatto ed un argomento che ne deriva. Esso fu già prospettato in lìilychnis, e riguarda la posizione di privilegio ingiustificabile che verrebbe fatta al Papa, qualora fosse ammesso a far parte del E»roblematico Congresso della pace, di fonte ai capi di altre religioni, i cui credenti, non meno che i cattolici, sono implicati nella guerra attuale.
È bene, ad ogni modo, rilevare dello scritto del Nathan quei brevi punti che a tale argomento si riferiscono.
Detto che il Papa è Capo riconosciuto in tutto il mondo civile della forma religiosa della Cattolica, che il tramonto del suo potere temporale c altresì riconosciuto da tutti, e che oltre la forma religiosa, su cui il Pontefice impera, altre ve ne sono, parimenti riconosciute ed ammesse nel mondo civile particolarmente negli Stati ora in guerra, il Nathan continua: « Si può sapere per quale ragione il delegato del Pontefice dovrebbe prendere posto nel contemplato sinedrio, e non quello della Chiesa Anglicana, della Luterana, della Maomettana, della Buddistica cara al Giappone? E si pone così la interrogazione per rimanere entro i limiti delle religioni dello Stato, senza tenere in debito conto le rappresentanze degli israeliti, dei metodisti, dei teisti, dei positivisti, dei materialisti, dei battisti, di quanti altri abbracciano diversa forma di pensiero filosofico e militano negli eserciti, dànno liberamente la loro vita sui campi di battaglia, sebbene non irregimentati sotto una religione di Stato. In altri termini, è concepibile che i rappresentanti delle potenze abbiano a riconoscere la superiorità, la sovranità della religione cattolica
su tutte le altre da loro ufficialmente professate e riconosciute? E quando ciò non sia, come indiscutibilmente appare, è concepibile che le potenze civili, per determinare le condizioni di pace, abbiano ad ammettere, insieme ai loro delegati, quelli delle varie fedi religiose, con pari autorità- l’Arcivescovo d’Inghilterra che dia sulla voce al Re. l’Arcivescovo Luterano che si schieri Contro l’Imperatore, che ad entrambi i delegati di Maometto e di Budda dettino legge, per determinare i confini tra le varie nazioni, per ordinare le condizioni economiche dei vari popoli? Basta porre la interrogazione per non lasciar dubbia la risposta.
« Alla questione delle guarentigie ha da pensare il popolo italiano e ci pensa come ha pensato in passato per la tutela della libertà di pensiero: non assumerà impegni senza mantenerli. Alla questione religiosa pensa ogni nazione, ogni individuo a risolverla secondo la propria coscienza individuale e collettiva; alla questione delle nazionalità, dei confini etnografici ed economici dei vari popoli, dei reciproci rapporti internazionali pensano e dovranno pensare in guerra od in pace le legali rap-Ì>resentanze civili delle varie nazioni. Riflettere sulle logiche conseguenze equivale a respingere, quale illogica, inammissibile, perfino assurda qualsiasi altra soluzione, tragga origine anche dalle guarentigie date dalle varie nazioni ai capi delle religioni ufficialmente professate, come ad esempio in Irlanda dal Governo del Regno Unito ».
Conclude quindi il suo dire affermando che nella mirabile concordia di animi, che attualmente regna in Italia, in questa « tregua di Dio », non è bene sollevare questioni atte a turbarla, a seminar zizzania per l’avvenire, quando è il solo presente che deve assorbirci tutti.
UN DEPUTATO
Un breve articolino sulla Tribuna del i° marzo scrive sempre sul tema « Il Papa e il Congresso della pace » un anonimo che firma « Un Deputalo ». Tale scritto è per metà il riassunto delle conclusioni degli articoli del Mosca, del Nathan e del So-derini. Aggiunge quindi quel « Deputato » di concordare col Mosca; di dissentire nelle premesse non essendo anticlericale sistematicamente nè protestante (!) come l’ex sindaco di Roma, dalla tesi di Ernesto
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Nathan, perchè ritiene che là Chiesa cattolica abbia storia e tradizioni gloriose di natura politica che non hanno le altre confessioni e sètte, e perchè il Papa ha privilegi e prerogative regali ed ha « politicamente parlando una posizione di pnm’ordine », e se non ci fosse di mezzo la così detta « Questione Romana » all’Italia potrebbe più convenire che dispiacere il di lui intervento alla conferenza < ella pace; dice di essere agli antipodi da la tesi del Soderini, pel fatto che questi « dimentica l'antagonismo fra l’Italia e il Vaticano, antagonismo che è l’ostacolo insormontabile dell’adesione nostra alla presenza del Papa al Congresso ». Accenna rapidamente all’ostilità pontifìcia contro l’Italia, dal considerare e proclamare come una ruberia ed un latrocinio l’occupazione di Roma, alle veementi proteste anche recentemente dall’attuale pontefice rinnovate. Finché dunque il Papa non accetti il « fatto compiuto » è inutile, pericoloso e dannoso per l’Italia acconsentire a che il Papato abbia ad aumentare la sua importanza politica. Conclude per questo, come il Mosca ed il Nathan, che l'Italia non debba permettere che il pontefice prenda parte al Congresso.
MONS. UMBERTO BENIGNI
Mons. Umberto Benigni, è intervenuto nella polemica per rispondere, pur non nominandolo, all’articolo del Nathan e di chi aveva proposto o accennato all’argomento che, se il Papa intervenisse al Congresso, anche i rappresentanti ufficiali di altre religioni dovrebbero godere dello stesso diritto.
Il Benigni nel suo articolo « Il Papa e il Congresso» (Nuova Antologia del marzo) incomincia col riassumere quella che egli ritiene la tattica dell’attacco avversario all’intervento pontificio. Tale attacco sarebbe condotto su due linee, l’una politica e nazionale, la quale « dà l’allarme per il pericolo di che il discusso intervento minaccerebbe l’Italia, mettendo sul tappeto del Congresso la Questione Romana ». l’altra giuridica e generale, che « colpisce radicalmente l’intervento papale al prossimo come a qualunque altro Congresso od atto politico, perchè il Papa, oggi autorità soltanto spirituale, è incompetente per un atto politico ».
Le due tattiche, secondo il Benigni, si armonizzano, poiché la prima non sarebbe che una finta per distrarre l’attenzione di coloro che non amano il risollevarsi della
Questione romana, ma che non sono mal predisposti contro una influenza morale del papato nella vita politico-sociale dei popoli. L’altra tattica invece, la giuridica, è la vera, avendo lo scopo diretto di far sanzionare l’incompetenza del papato a partecipare ormai alla vita politico-sociale dell’umanità.
Detto questo, lo scrittore afferma che i cattolici non si sono lasciati sorprendere dalla finta dell’avversario, pur resistendogli anche su quel terreno (della Questione romana), nè illudere sul vero punto della questione. E continua riassumendo così la tesi centrale degli avversari: • Il Papa non è più sovrano politico; è sovrano, è capo spirituale, nè più nè meno; dunque egli non ha alcuna competenza a partecipare ad un atto politico, per es., al prossimo Congresso della pace. E per rafforzare con una reductio ad absurdum tale tesi, si aggiunge: altrimenti ogni capo di Chiesa o di religione di Stato avrebbe pari diritto d'intervento, il che voi cattolici sarete i primi a trovare assurdo ».
E qui mons. Benigni entra nel vivo del combattimento cercando dapprima di distruggere la tesi generale contro l’intervento pontificio, usando di un sottile ragionamento per dimostrare che un capo spirituale, anche spogliato di potere temporale, è competente per atti politici nell’interesse supremo della società, nel tutelare il quale convergono le finalità dei due poteri: il politico ed il religioso. Gli argomenti di cui lo scrittore usa sono i più vecchi del repertorio per quanto spolverati e rinverniciati. Che cos’è la politica? — si chiede mons. Benigni. E si risponde: « Politica è la cosa dello Stato come tale: e lo Stato in quanto è governo, non è veramente civile se non riassume o serve, in quanto e come può, gli interessi sociali della civitas, della patria ». Stabilito questo il Benigni ragiona così: La religione è un fatto sociale ed è un organismo sociale, ma non v’è fatto od organismo sociale di cui possa disinteressarsi una civile società ed il suo Governo, dunque lo Stato non può disinteressarsi della Chiesa quale organismo. Dato ciò, lo scrittore ne deduce (non sappiamo con quanta logica): « Come si potrà trovare in essa (Chiesa) una intrinseca incompetenza sul terreno politico, statale? La Chiesa è dunque un ente di cui la politica si possa occupare in quanto quella è un fatto sociale, ma un ente che di politica in quanto fatto sociale non possa occuparsi? Ciò sarebbe intrinsecamente
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iniquo e pienamente contradittorio con i vantati principi! moderni, per i quali non vi sono più doveri senza diritti equipollenti.
Stato e Chiesa s’incontrano sul terreno eminentemente politico-sociale della civiltà dei popoli, della giustizia e della pace pubblica, della educazione e della famiglia, colonne della civile società. Ciascuno dei due vi si trova in un differente punto di vista? Ebbene, è per questo che non si debbono nè si possono confondere; ma possono e debbono accordarvisi ».
Quindi, riferendosi al punto di vista pratico e moderno, afferma che l’esperienza dimostra che la Chiesa è del tutto competente per intendersi con la politica organica, Stato, nel comune interesse politico-sociale delle nazioni, come lo denota il fatto che il Papa mantiene e riceve diplomatici, rispettivamente in e da paesi anche non cattolici od aconfessionali.
Questa è la parte generale dello scritto di mons. Benigni. I.a parte che se^ue è dedicata più particolarmente ad infirmare direttamente l’argomento avversario alla tesi clericale, argomento a cui abbiamo accennato più sopra. — Come, dice mons. Benigni, volete impedire al Papa cattolico di intervenire al Congresso, quando vi intervengono i Papi delle altre religioni ? — Scrive infatti:
• Cosi è: al futuro Congresso della pace prenderanno parte attiva e decisiva i capi ufficiali di varie Chiese: il Re d’Inghilterra, capo della sua Chiesa Stabilita, — il Re di Prussia, summus episcopus della Chiesa Evangelica del suo regno, — lo Zar di Russia, capo della Chiesa Ortodossa del suo impero e Protettore religioso delle altre Chiese Ortodosse, — il Sultano di Costantinopoli, Padiscià, Vicario di Allah per l’IsIam, — l’imperatore del Giappone, figlio degli Dèi e capo della sua religione nazionale.
Gl’italiani sono così poco avvezzi a tali fatti, che la loro mentalità ripugna a vedere in quei sovrani dei veri capi di Chiese. Confondendo la supremazia ecclesiastica colla funzione ecclesiastica, gl’italiani sono portati a considerare quei sovrani non come capi delle rispettive confessioni o religioni, sibbene tutt’al più come esercenti un controllo civile sulla vita religiosa, a un dipresso come il Governo italiano dà o rifiuta gli exequatur od i placet ai vescovi ed ai parroci del regno.
Eppure la verità è quella, non questa. Che il Re d’Inghilterra non distribuisca la santa Cena ai suoi fedeli, e Io Zar non pon
tifichi nella cattedrale ortodossa di Pietro-grado, questo non toglie che l’uno e l’altro siano capi, veri capi, della loro Chiesa, giacché per esser capo di una Chiesa, basta essere il superiore diretto della sua gerarchia e del suo funzionamento ».
A suffragar queste parole riporta quindi una specie di decreto su affari ecclesiastici, che egli paragona ad una bolla papale, del re d’Inghilterra ed illustra i titoli pontificali degli altri regnanti. Assume poi che tutti questi Re-Papi non solo esercitano per mezzo dei loro Governi la loro supremazia ecclesiastica, ma la estendono, come se ne presenti l’occasione, sul terreno politico internazionale. I.a Russia infatti nel 1774 si fece riconoscere dalla Turchia come protettrice di tutti gli ortodossi dell'impero ottomano, e così altri Sovrani esercitano il loro potere religioso su terre non proprie come, ad esempio, pel trattato d’Ouchy la Turchia chiese e l’Italia accettò un rap-Srasentante religioso del Sultano in Tripo-tania.
Pertanto—secondo il Benigni— vari papi interverranno al Congresso, ed ivi potranno far discutere forme politiche di interessi religiosi o forme religiose di interessi politici. Perchè dunque impedire al Papa di Roma di intervenirvi a difendere sul terreno politico gli interessi della sua Chiesa? Nè giova dire che nella guerra d’oggi e quindi nella Conferenza futura non esisteranno interessi cattolici o non cattolici, ma solo interessi politici di Stati, poiché il Papa dovrebbe, per lo meno, intervenirvi per garentirsi contro altri, « richiamando, al bisogno, l’attenzione del Congresso sulle risultanze di qualche pro-Eosta lesiva dei legittimi interessi della hiesa cattolica », che potrebbe forse essere avanzata dall’imperatore di Russia, o dal Sultano ecc.
Quindi, conclude lo scrittore, negando al Papa l’intervento al Congresso, perchè non è un sovrano temporale, sarebbe porre il cattolicismo in una ingiusta condizione di inferiorità di fronte alle altre religioni.
FILIPPO CRISPOLTI (II)
, In una sua •< Risposta aperta ad Ernesto Nathan », Filippo Crispolti, nella Nuova Antologia del 1" marzo, intende combattere le argomentazioni dell’ex sindaco di Roma. E risponde innanzi tutto alla domanda: Per quale ragione il delegato del Pontefice dovrebbe prender posto nel
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contemplato Sinedrio, e non quello della Chiesa Anglicana, della Luterana, della Maomettana, della Buddistica, ecc., ecc. La risposta è semplice, dice il Crispolti: nessun obbligo v’è di chiamar tutti quest’altri signori, perchè non è esatto che vi siano altri personaggi aventi titoli pari a quelli vantati dal Papa.
« Anzitutto — scrive Crispolti — qual’è la religione che come la cattolica abbia una vita ed un’organizzazione cosi distinte da ogni vita e organizzazione degli Stati, delle nazioni, delle stirpi, da spiccare per la sua morale soltanto? Dove sono perciò capi di religioni, che, come il Papa, abbiano nel mondo un’importanza di tal misura, dovuta unicamente ad un titolo religióso? In secondo luogo, in quali religioni l’ufficio di capo ha il significato e l’ampiezza che ha nella cattolica? Nelle stesse confessioni che Ella ha citato, è tanta la parte lasciata all’arbitrio della coscienza individuale, o a varietà di costumanze locali, da rendere impossibile, sia un vero corpo di dottrine e quindi un magistero unico, sia un organismo vero e proprio di disciplina, di culto, di gerarchia. Il capo, quando c’è, lungi dall’essere il maestro, il legislatore, il governante, com’è il Papa nella religione nostra, ha autorità e mansioni molto più ristrette, talvolta un semplice primato d’onore. E dico, quando c’è, perchè, specialmente nelle sette cristiane aberranti, la supremazia è esercitata in parte e come in teoria dal sovrano temporale, nell’altra e nei dettagli pratici da un corpo o persona sacerdotale ».
Aggiunge poi che il riconoscimento di Suesta unicità della figura spirituale del apa è dato anche dal fatto che mentre molti potentati, anche infedeli ed eretici, hanno rapporti diplomatici con lui, non hanno affatto ambasciatori presso i grandi Rabbini e i grandi sacerdoti di Brahma e di Budda. E continua che il Papa, anche nella guerra attuale e per effetto di essa, ha trattato e tratta con i governi, di modo che se egli fosse ammesse fra i congressisti non sarebbe che una specie di continuazione dell’opera da lui svolta sin qui.
Ciò sarebbe, è vero, «un riconoscere la superiorità del papato su tutte le supremazie religiose». Questo, per il Crispolti, non sarebbe che un puro riconoscimento di fatto, dal momento che... anche Luigi Luz-zatti, lo ha dichiarato. Ma non sarebbe affatto un riconoscere la sovranità della religione cattolica su tutte le altre. Poiché « un
consesso in cui sedesse sovrana su tutti, aspetterebbe da essa i precetti, non si limiterebbe, come è da attendersi nell'eventuale conferenza della pace, a discutere con essa i provvedimenti ». Di, conseguenza, dice il Crispolti, l’escluderne il Papa « sarebbe innaturale, illogico, fondato sopra analogie con altri capi religiosi, le quali non esistono, e sopra gelosie di essi, le quali non possono nascere ».
Detto queste, il Crispolti vuol rispondere all’altra obiezione del Nathan, che cioè il Papa, per le materie che vi si tratteranno, sarebbe un estraneo al Congresso ed un disoccupato. Ciò è contestato dal Crispolti, il quale afferma anzi che il Papa al Congresso incontrerebbe ad ogni passo questioni su cui avrebbe a metter bocca. Esclude però che possa trattarsi delle Guarentigie, e della religione come tale. Questa però può farvi capolino sotto l’aspetto delle libertà civili e delle protezioni internazionali. Il Papa poi sarebbe pienamente al suo posto sulle questioni fondamentali del Congresso, cioè la questione delle nazionalità, dei confini etnografici ed economici dei varii popoli, e dei reciproci rapporti internazionali. « Che importa che non siano questioni religiose ? O meglio si dica che tutto per il Papa, è questione religiosa ciò che riguarda uno dei primissimi precetti della religione, cioè la pace fra gli uomini. Si limita forse la religione a cose di culto e di gerarchia? La paternità pontificia sarà forse indifferente al fatto che milioni di uomini si uccidano tra di loro oppure vivano tranquillamente nelle loro terre a gloria di Dio e a vantaggio della civiltà umana? E se la ragione del dissenso e della strage è politica, ossia territoriale, coloniale, economica, cessa per questo la legge divina che impone di scoprire le discordie e promuovere le concordie degli uomini? Tecnico sarebbe il campo ove il Papa, cogli altri congressisti, dovrebbe camminare, ma altissima, santa, c quindi sua la mèta di un tal cammino ».
Le stesse Potenze, giusta il Crispolti. non possono dissentire da ciò, pel fatto che ciascuna di esse intende la giustizia e il diritto dal solo proprio punto di vista, di modo che il successo e l’affermazione di tal punto di vista di una o di un gruppo di Potenze, verrà da queste conclamato come trionfo del diritto e della giustizia, mentre le altre grideranno sempre che non è invece che il trionfo della violenza e si prepareranno alla rivincita. Non potranno stabilire qual sia il vero diritto e la vera giustizia i neutri, i
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quali si son conservati tali non per un principio superiore ma perchè hanno speculato sulla loro neutralità, sopra un rischio di meno o su un guadagno di più: nell’intimo spirito essi non differiscono dai belligeranti.
In queste condizioni — conclude il Cri-spolti — il Papa, < che non ha nulla da domandare o da aspettare per sè », è il solo che potrà restaurare la giustizia ed il diritto ed esserne il propugnatore nel Congresso.
“VICTOR”
A conclusione degli scritti in contradit-torio pubblicati, Victor nella Nuova Antologia interviene, quasi a prendere amabilmente in giro i giostratori del singolare torneo, proponendosi una domanda assai semplice, ma alla quale nessuno aveva seriamente pensato: « Vi sarà un Congresso della pace ? ».
Victor dice giustamente che per un Congresso occorrono due elementi: gli argomenti da trattare e la scelta degli Stati che debbono intervenirvi. Ora: quali gli argomenti? Le condizioni della pace? Ma esse non saranno che la conseguenza del risultato definitivo delle armi. Vi sarà ben poco margine a discussioni e trattative. « Il gruppo vincitore non avrà che ad enunciare le sue condizioni, più o meno dure a seconda della intensità della sua vittoria: il gruppo vinto non avrà altra sorte che di subirle, quanto più sarà fiaccata la sua resistenza militare ed economica. Il 1870 insegna ». Pertanto vinca la Quadruplice Intesa o le Potenze Centrali, l’uno o l’altro dei due gruppi formulerà le condizioni di pace su cui poco o punto transigerà. Perciò un Congresso sarebbe inutile se non dannoso come fomite di intrighi, di discordie e di nuove e peggiori rivalità e complicazioni per il presente ò per l’avvenire.
Passando .agli Stati che comporrebbero il Congresso, Victor dice che se si trattasse dei soli Stati belligeranti, non vi avrebbe
più Congresso ma un semplice convegno tra vincitori e vinti.
Vi sarebbero ammessi anche gli Stati neutri? In tal caso questi sarebbero gli Stati europei rimasti neutrali e tutt’al Siù gli Stati Uniti d’America. Astraendo unque dall’intervento del Papa, il Congresso sarebbe così costituito: Intesa: Belgio, Francia, Giappone, Inghilterra, Italia; Montenegro, Portogallo (entrato ora in guerra), Russia, Serbia; Potenze Centrali: Austria-Ungheria, Bulgaria, Germania, Turchia; Stati neutrali: Danimarca, Grecia, Norvegia, Olanda, Romenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Stati Uniti d’America. Riassumendo: 9 Stati maggiori e minori àe\V Intesa con circa 330 milioni di abitanti; 4 delle Potenze Centrali con 146 milioni di abitanti; 9 Stati neutrali con circa 153 milioni d'abitanti.
Ora come si voterebbe al Congresso? Non per popolazione perchè quella del-V Intesa supera quella delle Potenze centrali e degli Stati neutri messa insieme. Non per Stati, perchè gli arbitri, anzi i padroni assoluti ’della situazione sarebbero gli Stati neutrali che quasi tutti parteggiano o simpatizzano per la Germania. Quindi l’Intesa, vincitrice o vinta, non ha nessuno interesse ad accettare l’intervento di questi paesi.
« Così — prosegue Victor — il Congresso della pace si presenta ai nostri occhi cosa difficile se non impossibile. E d’altra parte a che cosa servono i Congressi se ogni Stato ne strappa i deliberati appena ciò Sii faccia comodo, come accadde per quello i Berlino? ».
Ciò non toglie certamente che a guerra finita si senta la necessità di Congressi tra Stati e Stati per stabilire rapporti d’ordine giuridico ed economico. Ma si tratterà di cosa affatto diversa da un Congresso della pace.
La pace verrà dettata ed imposta sulla punta della spada dal vincitore al vinto.
{Continua). Ernesto Rutili.
Cambio colle Riviste
Psiche. Rivista di Studi psicologici. Firenze, anno IV, n. 4, ottobre-dicembre 1915. - Roberto Assagioli: « La classificazione dei sogni • - Giovanni Stepanow : « Sogni indotti » - Stefano Stefani: « La valuta
zione psichica del malato» - Pubblicazioni ricevute - Bollettino della Associazione di Studi psicologici - Indice del quarto volume.
(Con questo fascicolo la pubblicazione della rivista viene temporaneamente sospesa].
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CAMBIO COLLE RIVISTE
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Studi Romani. Roma. Anno II, fase. VI; nov. 1914-dic. 1915.-Porro G. G.: «Il tesoro dell’Asklepieion di I,ebena»-A. Boatti: « L’agricoltura egiziana nei documenti papiracei »-C. Ricci: «Piombi traforati » - G. Gerola: « Sarcofagi ravennati inediti »-Pesarini S.: «Per una variante al testo del “ Li ber Pontificali»” ° - Profumo A.: « La memoria monumentale “in catacumbas ” degli Apostoli Pietro e Paolo • - Notizie.
La nostra Scuola. Milano. Anno IV, n. 5; 15 febbraio 1916. -G. Santini: «Psicologia e pedagogia » - T. Bertolotti: « I maestri c la cultura » - b. c.: « Orientarsi » -S. Tea: « Doveri » - P. Giacosa: « I vivi e i morti »- a. c.: « Scuola e religione • - ecc.
Eco della Cultura. Napoli. Anno III, fase. II; 15 febbr. 1916. - F. Bellomia Barone: « Un’antica costruzione dell’infinito; I massimi problemi » - D. Bosurgi: a Studi storici d’arte italiana; Leonardo da Vinci • - T. Di Giorgio: «Ultima sera»- M. De Liso: « Triste rinunzia » - Recensioni -Sfrondature - Bricciche.
29 febbraio 1916- N. Caravaglios: « Due lettere commendatizie di Bernardino de Figueroa e Christoval de Morales » -G. Brindisi: « Là filosofia indiana nel pensiero di Maurizio Maeterlinck » - G. Miola: « Palestrina » - ecc.
Conferenze e Prolusioni. Roma, anno IX, n. 3; i° febbr. 1916.-P. Colonna: «Per la salute e per la grandezza della patria» - P. Carcano: « Il partito della vittoria e della Pace»-L. Luzzatti: «L’appello al paese » - F. Martini: « La fede nella vittoria » - G. d’Annunzio: « Sia fatta la più grande Italia »-Isidoro del Lungo: «Da Orsanmichelc al Palazzo Mediceo » - L. Mariani: «L’arte romana e l’archeologia » -L’attualità - Note e Notizie.
16 febbraio 1916. - G. Rosadi: « La nazionalità 1 dell’arte del Verdi »-E. Da-neo: • La situazione finanziaria italiana » - P. Orano: « L’illusione tedesca » - A. Galletti: » Il pensiero germanico contro il pensiero romano » - A. Linaker: « Li tedeschi turchi » - ecc.
r Rassegna Nazionale. Firenze. Anno XXXVIII, II serie, volume I; 1 gennaio 1916. - P. N. Grcgoracci: • I.’inversione del trinomio. La fratellanza »-C. Degli Occhi: « L’exequatur ai Vescovi »-G. Giannini: « Canzoni alla rovescia » - M. Pratesi: « Il
mondo di Dolcetta • (Romanzo) - Isidoro Del Lungo: « Da Orsanmichelc al Palazzo Mediceo » - « Diario di guerra in Francia » - P. Pagnini: « Scienza per tutti. L’infinito » - X.: « Rassegna politica » - G. Loschi: « Altre due lettere sulla caccia » -Notizie.
16 gennaio 1916. - L. Ferriani: «Morale contrabbandiera » - G. Manacorda: «Verso una rinascenza cattolica? » - G. Lucidi: « Ore parallele • - C. Degli Occhi: « l'exequatur ai Vescovi »- M. Pratesi: « Il Mondo di Dolcetta » - P. Barbèra: « Notte di Natale » - ¥.: « Diario di guerra in Francia » - X.: « Rassegna politica » -Libri e Riviste Estere - Note e Notizie -Varia.
N. 3, 1 febbraio 1916. - F. Casarétto: « Sul nuovo prestito di guerra » - B. Grassi: « Per l’italianità e la serietà degli studi. Le scienze biologiche nell’ultimo cinquantennio »-C. Degli Occhi: « L’exequatur ai Vescovi » - P. N. Gregoraci: « L’inversione del trinomio. L’eguaglianza »-T. Pioli: « Il padiglione serbo nell’esposizione Romana 1911 »-C.: «Il Papa in guerra »-X.: « Rassegna politica » - Libri e riviste estere - Note e Notizie - Varia.
16 febbraio 1916. - lile ego: « Di una possibile procedura per la pace • - N. Bianchi: « Il pensiero civile e politico di Giovanni Meli » - F. Casarétto: «Il cambio con la Svizzera >•-C. Degli Occhi: • L'exequatur ai Vescovi » - J. Maitre: « La grande lezione della guerra »-X.: «Rassegna politica » - ecc.
Vita e pensiero. Milano, anno II, fascicolo 2; io febbr. 1916. - A. Gemelli: «La psicologia dell’eroismo >•-D. Puliti: «Tommaso Salvini »-F. Meda: «Un bisogno moderno: La coltura religiosa » -G. Ellero: « La poesia vernacola del Friuli » - M. Brusadelli: « Giuseppe De Maistre e l’equilibrio europeo » - D. da Ganzi: « La Bulgaria di ieri, di oggi e di domani » -U. Gilberti: ■ L’Inghilterra c la coscrizione obligatoria » - A. Gemelli: « Il Signore dei nostri soldati » - F. Olgiati: « Mi-rabeau e l’immortalità dell’anima » - ecc.
20 gennaio 1916. - G. Dalla Torre: « La riorganizzazione dell'azione cattolica e la sua missione educatrice »- L. Gennari: «La Francia della vittoria »-L. Vigna: « L’educazione del fanciullo in tempo di guerra »-G. Boson: «Le recenti scoperte intorno agli Hethei »- F. Olgiati: « Il Pater noster di Enrico Ferri » - F. Scolari: « Ugo Foscolo ed Inverigo ».
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La Riforma Italiana. Firenze, anno V, n. 2, 15 febbr. 1916. - P. Orano: «Religione d’Italia » - R. Murri: « Il senso della morte » - G. Tyrrell: « Legge e coscienza » - R. Ottolenghi.: «Le origini cristiane »-G. Conte: « I.a nostra rivista » - Frizzone: « A proposito di critica biblica ■ - ecc.
Voci amiche. Milano, anno VI, n. 2, 20 febbraio 1916 - ... b. c.: « Orientarsi » -« Da una lettera » - «■ Lettere di guerra » -G. A.: « Per le madri del popolo - Sincerità » - Echi - Tra Libri e Riviste.
Ultra. Roma, anno X, n. 1; febbraio 1916.-A. Agabiti: «Il ramo d’oro»-- G. Buonamici: « Psicologia occulta dell’Egitto » - V. Walter: « Il monaco di Amalfi » -« Rinnovamento spiritualista » - « I fenomeni » - « Per le ricerche psichiche » - « Rassegna delle riviste » - « Libri nuovi ».
Luce e Ombra. Roma, anno XVI, fase. 2; 29 febbr. 1916. - P. Raveggi: « La religione dello spirito nella sapienza dell’antico Egitto » - V. Cavalli: ■ La fortuna dei necrologismi » - F. Zingaropoli: « Disintegrazione della personalità »-A. Bruers: « Le responsabilità intellettuali e morali della presente guerra » - C. Steiner: • Fatti telepatici e medianici in una cronaca del sec.'xiv » - A. Rizzuti: « Nulla morrà nella vita»-V. Tummolo: « Rivendicazioni filosofiche» (Risposta ad E. Caporali) - E. Viola Agostini: « A proposito di Cremazione » - ecc.
Foi et Vie. Paris, anno XIX, 1-15 febbraio 1916 - Cahier A.-P. Doumergue: « La guerre et le sermon sur la montagne » - Desdevises du Dezert: • La défense intellectuelle de la France » - « Au front » -Daniel Zolla: « L’exodè rural » - E. Doumergue: • Propos de guerre ».
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France » - Raoul Patry: « La Commission des otages à Bâle » - ulric Draussin: « Le Catholicisme et la guerre » - « Les Protestants français au feu » - Julien de Narfon: « Luther et l’Allemagne. Une conférence du pasteur Viénot » - Note de la Rédation - Conférences publiques et gratuites - Les livres - Le mois - Le Comité de propagande française à l’etranger.
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The Expositor. London, ànno XLII, febbraio 1916. - H. R. Mackintosh: « The vicarious penitence of Christ » - H. A. A. Kennedy: «The new testament metaphor of the messianic bridal »-J- B. McClellan: « Redemption, salvation and atonement in the old and new testaments » - James Moffatt: «A popular text«»-J. E. Mac-fadyen: «The mosaic origin of the decalogue. 1. The ritual decalogue-2. Egyptian and Babylonian parallels to the ethical decalogue ».
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GIUSEPPE V. GERMANI, gerente responsabile.
Roma. Tipografia dell'Unione Editrice, via Federico Cesi, 45
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